di Giuseppe Milicia (presidente Camera Penale di Palmi – Coordinatore Camere Penali Calabresi)

“…cronaca di un caso di ordinario abuso giudiziario del Troyan”

Non è solo penna raffinata, Alessandro Barbano è intellettuale di una pasta che non ci sono più gli ingredienti per assemblarla.

La sua “ossessione” nell’esplorare con la sonda del pensiero critico il funzionamento degli apparati della repressione penale è la medesima di altri, pochi e mal tollerati, primo tra tutti il più grande, Leonardo Sciascia da Racalmuto.

È esattamente il taglio che il direttore Barbano ha dato alla cronaca di un caso di ordinario abuso giudiziario del Troyan – l’espressione più matura del delirio di controllo dell’inquisitore – nel long form pubblicato su “Il Foglio” il 14 gennaio 2024.

L’estenuante caccia alle prove dell’innocenza occultate nelle indagini col Troian

di Alessandro Barbano (pubblicazione del 14 gennaio, 2024)

Ho letto con grande interesse ma anche con trepidazione ed un certo imbarazzo, trattandosi di un caso di cui mi sto occupando.

Lo spunto era offerto da indagine antimafia contro un politico locale accusato di avere stretto accordi con la ndrangheta per condizionare il consenso elettorale nelle consultazioni regionali del 2020. Ha preso così corpo un racconto, in controtendenza, della potenza fuori controllo dello strumento intercettivo e degli apparati che ne hanno il monopolio, di diritti violati, di presidi di garanzia scadenti se non solo apparenti.

Una storia di potenti, di sudditi e di sudditanze.

Il racconto ha ben poco di romanzato e proprio per questo diffonde l’odore acre ed inconfondibile da retrobottega di macelleria affollato di umanità degradata ancor prima di imbattersi in un Giudice.

Il Giudice, specie rara ai margini della scena, in cui campeggia il Pm ed il suo insindacabile potere di scegliere cosa è utile e opportuno far conoscere all’inquisito (e a chi deve giudicarlo) anche quando le regole lo obbligherebbero a depositare tutto quello che aveva tenuto nascosto durante le indagini per non comprometterne l’esito.

Un processo in cui l’uso sapiente del vantaggio competitivo del mazziere ha consentito di costruire profili criminali posticci dati in pasto alla comunità dei plaudenti. Ed in cui il tardivo disvelarsi dell’impostura non ha fatto arretrare di un passo un apparato che non può scoprirsi fallibile.

Purtroppo niente di romanzato nel racconto di Alessandro Barbano.

Ha solo un difetto che colgo io, che ci sono dentro, e colgono gli addetti ai lavori. La scoperta dell’inganno, della prova di innocenza nascosta, pur rocambolesca non è frutto del caso, di accidenti favorevoli agli accusati. Nemmeno dipende dalla solitaria contesa ingaggiata da un cavaliere senza paura contro il potere gigantesco dell’apparato dell’accusa che nei processi a difesa minorata proietta ombre sinistre sul campo avversario.

Le battaglie solitarie rischiano di essere velleitarie e sono destinate normalmente al fallimento.

Intanto serve un apparato di sapere e risorse materiali. Serve sapere come si ricercano le tracce dell’abuso, riconoscerle, evitare che vengano cancellate o confuse con manifestazioni legittime degli irragionevoli vantaggi garantiti al PM nei processi contro le “categorie pericolose”.

Serve che quell’apparato di sapere sia patrimonio comune.

In un processo contro decine di imputati l’unione delle energie, della passione e delle competenze dei difensori che hanno condiviso il percorso di dimostrazione e denuncia dell’abusiva menomazione del diritto basilare alla conoscenza delle informazioni raccolte con l’infernale aggeggio, è la condizione essenziale perché il Potere sia costretto a render conto delle sue miserie.

Diversamente per la voce fuori dal coro si apre l’inquietante prospettiva dell’isolamento, dell’etichettamento, della costruzione di un profilo deviante. Nel migliore dei casi il coraggio parresiastico del singolo non riesce ad andare oltre la mera testimonianza.

Se nel processo Eyphémos si è stati nelle condizioni di costringere l’apparato a dare conto, a fornire giustificazioni (ed a cambiarle di continuo con spregiudicata disinvoltura) è perché il collegio intero dei difensori non ha ascoltato la suadente voce delle sirene che addormenta i sensi e spegne gli spiriti combattivi.

Non sarebbe stata sufficiente abnegazione e tenacia di chi, detto per inciso, l’ottima avvocata Susanna Maio, ha dedicato risorse intellettuali e capacità tecniche alla ricerca delle prove dell’abuso.

È servita la forza d’urto di avvocati consapevoli e disposti a mettersi in gioco rinunciando al comodo paravento che protegge chi accetta di giocare la partita alle condizioni dettate dal potente antagonista.

Dico tutto questo ovviamente non per muovere critiche all’unico punto del racconto in cui la licenza narrativa dell’uomo solo contro il potere ha preso il sopravvento. Ma per rimarcare che la partita, anche quando le condizioni sono le peggiori possibili, val la pena giocarla solo se si è in una squadra.

Per il resto possiamo auspicare che intorno a vicende come quelle raccontate da Alessandro Barbano si apra una discussione seria, perché il declino delle facoltà difensive di accesso al sapere investigativo isterilisce il contraddittorio ed è potentissimo vettore di sentenze ingiuste. E si tratta di declino progressivo che si consuma nell’indifferenza generale come dimostra la recente modifica del secondo comma dell’art.268 cpp che qualche affrettato e malaccorto giudizio ha inquadrato come espressione di istanze di civiltà e di garanzia dei diritti individuali. Eppure non dovrebbe essere difficile distinguere una corona da un capestro…

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