L’approfondimento di maggio

Per cominciare, Vi propongo alcune mie riflessioni in risposta alla domanda classica che viene rivolta ad un penalista: “ma come fai a difendere certa gente?”

Vi invito a commentare liberamente, con la stessa raccomandazione che rivolgevo ai miei giovani studenti, quando insegnavo “eloquenza forense” all’università; o ai colleghi iscritti ai corsi sullo stesso tema, che svolgevo su invito dell’Unione delle Camere Penali, o di vari Ordini Forensi: “qui non servono elogi, ma solo critiche costruttive”.

Grazie

ETICA E DIFESA DEL COLPEVOLE

È talmente diffusa, questa stereotipata idea dell’avvocato, che arriva, talvolta, a coinvolgere anche il Giudice, specie nei confronti dell’avvocato che assiste imputati di una certa tipologia di reati, come la c.d. criminalità organizzata: l’avvocato appare allora agli occhi di alcuni giudici come un favoreggiatore, se non addirittura come un complice dei propri assistiti.

Per comprendere le ragioni di questo fenomeno, bisogna muovere dalla constatazione che è presente, in ogni essere umano, un “senso di ingiustizia”, che taluni chiamano “la voce della coscienza”; si tratta, appunto, dell’ETICA, che altro non è che l’esperienza soggettiva del sentire e, quindi, distinguere ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto.

L’ETICA, in quanto esperienza soggettiva, precede la MORALE, che è invece la oggettivazione di comportamenti ritenuti etici dalla collettività, come la stessa etimologia conferma: la morale ha infatti a che fare con le abitudini collettive (mores); la morale è quindi l’insieme dei comportamenti ritenuti dalla collettività “giusti” e, conseguentemente, di quelli che devono, invece, ritenersi “ingiusti”; i primi diventano così vere

e proprie regole di condotta, poste a tutela di tutto ciò che è ritenuto “bene” per la collettività. Il rispetto di tali regole viene assicurato, in caso di trasgressioni, dalla previsione di sanzioni; per i “beni” più preziosi, è prevista la pena più severa: la privazione della libertà.

Per la gente comune, quindi, l’avvocato penalista, il quale difende proprio coloro che violano le leggi penali – quelle poste a tutela dei beni e valori più preziosi per la collettività – pone in essere un comportamento inaccettabile, immorale, perché, ai loro occhi, per la brama di vile denaro, aiuta un mascalzone ad evitare la prigione, che è la sacrosanta punizione che merita colui che quei beni e valori aggredisce.

Il tentativo di dare una parvenza di moralità all’attività dell’avvocato lo troviamo nell’art. 24 Cost. “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.

Ed è questa, infatti, la risposta che in genere si dà alla domanda “ma come fai a difendere certa gente?”: l’avvocato penalista difende per evitare il rischio che possa essere condannato un innocente; la sua funzione è quella di evitare il c.d. “errore giudiziario”. Solo al termine di un processo si può, infatti, affermare se un soggetto, che riveste la qualifica di imputato, cioè di semplice accusato, sia innocente o colpevole; l’avvocato, quindi, difende accusati, non colpevoli, perché tali potranno essere, appunto, gli accusati, solo al termine del processo.

Si invoca, a tal fine, la necessità del processo penale, la cui origine, peraltro, è nella VENDETTA; un concetto, questo della origine del processo penale nella vendetta, che è necessario approfondire.

Ne abbiamo una importante conferma nel diritto romano: nelle XII Tavole si trovano casi in cui la vendetta è ammessa e legittimata dal potere pubblico come la forma normale di reazione al delitto.

I protagonisti originari del processo penale, dunque, come testimoniano le XII Tavole, sono solo due: l’autore del delitto, il Reo, e la Vittima, legittimata a reagire, a “vendicarsi”.

Questo embrione di processo è già un compiuto meccanismo riequilibratore, previsto dalla legge, per placare, come diremmo oggi, l’allarme sociale provocato dal reato.

Quando e perché, quindi, entra in scena la figura del Giudice?

Dalle stesse XII Tavole1 risulta che già esisteva un apparato statale che interveniva come vendicatore di alcuni delitti che turbavano in maniera particolarmente grave l’ordine sociale.

Per cogliere questo passaggio essenziale, occorre riflettere sui rapporti tra la vendetta ed un istituto ad essa affine, tuttora presente nel nostro ordinamento: la legittima difesa.

Art. 52 C.P. : “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.

Anche qui, come nella vendetta, abbiamo la legittimazione di una reazione nei confronti di un offensore, che costituisce applicazione della primordiale legge del taglione, ma ciò che distingue la legittima difesa dalla vendetta è l’elemento temporale. Della vendetta si dice che “è un piatto da consumare freddo”: mentre la legittima difesa, per essere tale, deve essere immediata; come dice il codice, deve esserci “un pericolo attuale”, cioè una offesa in atto: se l’offesa appartiene ormai al passato, la reazione non è più legittima.

Se, infatti, intercorre del tempo, tra il momento dell’offesa e quello della reazione, c’è il rischio dell’errore.

Il bisogno di vendetta può portare, infatti, a sbagliare, a prendersela con un innocente. Un rischio che è tanto più grande, quanto più la vittima del reato è accecata dalla rabbia e dal dolore, come accadde al personaggio interpretato dal grande Alberto Sordi nel film “Un borghese piccolo piccolo”. Non a caso la saggezza popolare insegna che la passione “rende ciechi”.

Accanto all’esigenza primaria di infliggere una punizione al reo, sorge così l’esigenza di accertare la colpevolezza, onde evitare la punizione ingiusta di un innocente.

Ecco la giustificazione ontologica della funzione del Giudice.

Il Giudice si sostituisce alla vittima per soddisfarne il bisogno di vendetta (bisogno che è anche della collettività, che sulla vittima “si proietta”2); ma si sostituisce proprio per evitare che possa essere punito un innocente o che la pena possa essere sproporzionata rispetto alla colpa: ed anche questo è un bisogno sociale, che nasce nel momento in cui la Ragione afferma il suo primato sulla Passione.

È questo il momento che segna il passaggio dalla mera Vendetta alla Giustizia: la Vendetta diventa Giustizia, quando si accompagna al bisogno di evitare l’errore: in una mano la spada e nell’altra la bilancia.

Queste due esigenze, quella di punire e quella di accertare la verità (evitando l’errore) e, quindi, “fare Giustizia”, sono esigenze profondamente immanenti nel processo penale. Nei periodi di c.d. “emergenza criminale”, quando particolarmente forte è l’allarme sociale derivante dal delitto, l’esigenza punitiva tende a prevalere sulla seconda. Ma una volta placatasi la spinta emotiva irrazionale, dovuta al sentimento collettivo di rabbia, la Ragione tende a riequilibrare il sistema processuale, riaffermando l’esigenza di accertamento della Verità, attenuando quel bisogno impellente di giustizia, che esige che l’autore del male venga immediatamente punito. E sempre questa, di evitare l’errore, è anche la ragione della nascita, nel successivo sviluppo del processo penale, delle due figure del Pubblico Ministero e dell’Avvocato.

Con una immagine molto efficace, Francesco Carnelutti, muovendo dalla constatazione che nelle aule di giustizia il Giudice è sempre collocato in alto rispetto alle parti – sullo scranno o su una pedana – vede nel Pubblico Ministero “un pezzo” del Giudice che materialmente si stacca e muove, in discesa, verso l’imputato, mentre un pezzo dell’Imputato – l’Avvocato, appunto – si stacca e muove, in salita, verso il Giudice.

Osserviamo incidentalmente, che proprio perché si è “distaccato” dal Giudice per svolgere la funzione di chi accusa, non dovrebbe essere consentito al Pubblico Ministero di ritornare al suo ruolo originario di Giudice, perché ha ormai acquisito una naturale tendenza a spostare la bilancia sempre dalla parte dell’accusa; d’altro canto – e lo notiamo con una punta di amarezza – se il Pubblico Ministero, nella sua veste di Accusatore, già non cerca praticamente mai, come è esperienza comune, le prove a favore dell’imputato – tanto che l’art. 358 del codice di procedura penale è una norma da ritenersi, di fatto, “abrogata per desuetudine” – come potrebbe, tornando a fare il Giudice, ritrovare l’imparzialità indispensabile per svolgere la funzione del decidere?

È questa la vera ragione che impone la necessità della “separazione delle carriere”. È come se si pretendesse da un Avvocato di essere un Giudice imparziale (anche se questo sarebbe comunque un danno minore, perché l’errore di assolvere un colpevole è meno grave di quello di condannare un innocente); tanto è vero che anche se l’art. 106 (terzo comma) della Costituzione, prevede che “su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’Ufficio di consiglieri di Cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”, rarissimi sono i casi di accoglimento, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, delle domande presentante in tal senso da Avvocati, nonostante le stesse debbano essere accompagnate da un parere di idoneità del Consiglio Nazionale Forense.

Ma chiudendo la parentesi e riprendendo il filo del discorso, consideriamo la straordinaria rilevanza di questa duplice ed opposta cariocinesi del Giudice e dell’Imputato, che dà origine alle rispettive figure del Pubblico Ministero e dell’Avvocato: il fenomeno descritto da Carnelutti segna, infatti, la nascita, nel processo penale, del principio del contraddittorio.

NOTE:

1 Le XII Tavole nascono nel 451 a.C., sotto la pressione dei Tribuni della Plebe, che volevano sottrarre ai patrizi il monopolio della giurisdizione: vennero così nominati i Decemviri (tutti patrizi), per la stesura di leggi scritte. Il testo venne scritto su lastre di bronzo che furono affisse nel Foro.

2 il concetto di “proiezione” (transfert) è una delle scoperte più importanti della psicologia.

 

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