A proposito di prove nascoste: 

PROCESSO ENI, LA FORZA DI UN PARADIGMA

di Giuseppe Belcastro

(20.01.2024) Pubblicato su PQM l’approfondimento de IL RIFORMISTA”

<<I pezzi che, senza malafede, non vediamo>>: con queste parole il sost. proc. di Milano, dott. Storari, sentito come testimone a Brescia, prova a fornire una chiave per comprendere quanto accaduto nella vicenda che in Quarta Pagina vi raccontiamo e che ruota attorno al c.d. Processo ENI, con il quale si è scandagliata, escludendola, una miliardaria tangente internazionale.

Per percepire l’assurdità di quanto accaduto in quella vicenda non serve aver idealizzato il giudizio penale come rituale certo e giusto, scandito su tempi controllati da officianti irreprensibili, così da dover poi sobbalzare alla scoperta che il processo non è niente di tutto questo. Anche chi, insomma, pratica le aule di giustizia o le ha subite occasionalmente per disavventura, avendo così constatato che il processo penale è intriso di umanità molto più che altri fatti, non è del tutto immune dallo sconcerto al cospetto di quanto accaduto nella vicenda processuale ENI.

Ci son due pubblici ministeri che hanno deciso di nascondere una prova determinante per la difesa degli imputati, costituita da un video dimostrativo della falsità del principale accusatore; c’è un Tribunale che si avvede dell’innocenza e annichilisce ogni mal riposto sforzo accusatorio assolvendo tutti e definendo inspiegabile l’accaduto circa la prova non ostesa;  c’è un appello degli inquirenti insoddisfatti (a proposito: non è mai troppo tardi per una riforma che lo escluda) e una Procuratrice Generale che invece, come un efficace anticorpo, pone fine alla vicenda rinunciando all’impugnazione dei suoi colleghi e qualificandola come incongrua, insufficiente, fuori dal binario della legalità e figlia di una posizione dell’accusa violativa delle regole del giudizio.

Solo che stavolta, c’è pure il liocorno.

Un altro pubblico ministero, infatti, il dott. Paolo Storari, nel frattempo evocato testimone nel processo che dai fatti è derivato a carico dei nasconditori, appoggia delicatamente la ciliegina in cima alla torta: aveva provato a segnalare ai colleghi l’inattendibilità del teste e la calunniosità delle accuse risultatagli per altra via nel corso di una sua investigazione, ma costoro non ne avevano voluto a che sapere, perché – dice in sostanza Storari – loro quel processo non lo potevano perdere ed Eni non doveva uscirne bene.

 Nel dire ciò tuttavia – potete leggerne in Quarta Pagina nella Storia del processo – il testimone articola a bassa voce una sorta di giustificazione logico-argomentativa secondo cui tutto l’accaduto sarebbe causato da una visione a tunnel che avrebbe impedito agli inquirenti di mantenere il necessario equilibrio valutativo, quasi determinandoli nell’errore. Anche questa in fondo – dice in sostanza Storari – è la funzione del contraddittorio: portare l’attenzione su pezzi della prova che il pubblico ministero senza malafede non ha visto.

 È una blanda difesa pavloviana forse, ma stimola comunque alcune riflessioni.

Per pensare che quanto accaduto nel caso ENI sia causato dall’essersi gli inquirenti infilati senza colpa in un tunnel visivo, serve essersi infilati a propria volta in un tunnel visivo, perdendo stavolta del tutto la visione laterale. La pervicacia con cui si è portata avanti l’accusa, addirittura appellando l’assoluzione, e le stesse percezioni di impermeabilità deliberata ai fatti che Storari riferisce di aver ripetuto dal dialogo con i suoi colleghi attestano invero l’esatto contrario.

A voler essere buoni, cose così sono il frutto di un peccato originale costituito dal volersi ad ogni costo barricare negli angusti confini di uno scenario giansenista fatto di buoni e cattivi; e non si farebbe fatica a capire dove i due pubblici ministeri del processo ENI abbiano inteso collocarsi.

Mentre per formulare l’ipotesi peggiore, quella che, inscritto il fatto nel delitto che a Brescia ha già condotto al rinvio a giudizio in danno dei due pubblici ministeri, consentirebbe di qualificarlo come lo scellerato gesto di chi vuole a tutti i costi vincere il processo facendo strame delle regole, serve attendere l’esito di quel giudizio. Anche se, per dirla tutta, il dubbio poco più che retorico del Tribunale sull’inspiegabilità della condotta dei due pubblici ministeri e l’affilata analisi del Procuratore Generale sulle caratteristiche dell’atto di appello quell’esito preconizzano.

Che sia l’una o l’altra delle ipotesi a dimostrarsi alla fine fondata, comunque, quando la polvere dell’artiglieria mediatica sarà calata, potrebbe voler la pena ripartire da un dato fino a ieri nient’affatto scontato: la magistratura è una parte del Paese, non la migliore, non la peggiore; solo una parte. In essa c’è tutto il bene e tutto il male della società. Regolare e rendere trasparente il potere che amministra è ormai improcrastinabile. Senza proclami, caccia alle streghe o guerre di religione. Ma con tanta buona volontà e franchezza.

Giuseppe Belcastro – (Penalista del Foro di Roma) Vice presidente Camera Penale di Roma

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