Gli approfondimenti del mese: febbraio 2024

Arringhe e contributi dottrinali di avvocati, magistrati ed accademici che, con la loro opera, hanno lasciato una traccia significativa nel mondo giudiziario.

Un ponte verso il futuro
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Armando Veneto:

“Arringa in difesa di un Avvocato“

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Giuseppe Capograssi:

“Sul quid ius e sul quid iuris di una recente sentenza” tratta da Opere, vol. V

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Luciano Revel:

Luciano Revel: “Arringa in difesa di Camillo Crociani”

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Le presentazioni…

armando veneto

Maestro di diverse generazioni di avvocati. Del suo adamantino magistero, giuridico e professionale, viene qui presentata una delle arringhe più sofferte perché pronunciata in difesa di un Collega, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, aggravato dall’art. 7 decreto legge n. 152/1991.

Un testo che non dovrebbe essere letto, ma adottato, nelle scuole di formazione di avvocato, per la ricchezza dei temi trattati e per gli spunti di riflessione e di insegnamento che trasmette.

La funzione del processo “come strumento di introspezione”,…… “di intervento chirurgico dentro l’anima”, la prassi distorta del P.M. che, presentando in udienza una memoria difensiva, cerca di far transitare atti acquisiti nella fase delle indagini preliminari, le deviazioni giurisprudenziali di allargare le ipotesi di concorso esterno in associazione ex art. 416 bis c.p., i rischi incombenti sul difensore di travalicare i limiti del mandato, la pregevole capacità di cogliere la patologia del procedimento probatorio richiamando un classico universale, Delitto e Castigo di Dostoevskij.

Sono temi che vengono affrontati con alto coinvolgimento emotivo e con la grave responsabilità di difendere un Collega da un’accusa che si rivelerà infondata.

A De Marsico è stato chiesto: “Come si prepara un’arringa?” E Lui richiamando Gaetano Manfredi ha risposto: “Egli (Manfredi) dimostrò che l’arringa nasce come la creatura umana: impeto d’amore tra l’avvocato e la sua causa”.

L’arringa di Armando Veneto che viene qui presentata costituisce una eloquente dimostrazione.

Giuseppe capograssi

Uno dei più autorevoli filosofi del diritto del secolo scorso. Non ha mai esercitato la professione di avvocato penalista, ma la nota a sentenza, che viene qui riprodotta, andrebbe, a mio modesto avviso, affissa in ogni palazzo di giustizia per ricordare a tutti gli operatori ( avvocati, magistrati, opinionisti esperti in tutto) che il processo penale, momento indefettibile di accertamento del fatto, prius logico antecedente per un sereno giudizio di attribuzione di responsabilità, va celebrato nella sua sede naturale, che è l’aula di giustizia. Non sui social e/o  nei talk show televisivi, che sono la traslazione della caverna, dove è stato celebrato, come si leggerà da qui a poco, un processo farsa e che ha indotto Giuseppe Capograssi a redigere la nota a sentenza che costituisce una delle pagine più illuminanti che siano state scritte sul ruolo di garanzia che deve essere riconosciuto, sempre, al processo penale.

Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito ad una lenta deriva del processo, che ha assunto caratteri di spettacolarità che non si conciliano con la cultura della giurisdizione e con il rispetto dei diritti dei cittadini, che vanno sempre e comunque tutelati, a prescindere dai ruoli e dalle responsabilità, che vanno serenamente accertate.

Dalla scenografia del processo di Mani Pulite, dove l’ego smisurato di pubblico ministero e difensore hanno collocato in una posizione marginale l’imputato, siamo passati al plastico raffigurante la villetta di Cogne, nella trasmissione “Porta a Porta”, dove si coglieva un orientamento giustizialista, nei confronti di Anna Maria Franzoni, mentre al “Maurizio Costanzo show”, nei confronti della stessa persona, si respirava un’aria più garantista.

Nel mese di novembre scorso Filippo Turetta, tristemente noto per l’omicidio di Giulia Cecchettin,  mentre era detenuto in una casa circondariale tedesca, prima ancora di essere trasferito in Italia, era già stato giudicato dagli esperti di turno. Sui social è stata pubblicata, da parte di una criminologa, una diagnosi di carattere, a modo suo scientifico, prontamente confutata, con altra diagnosi, dal presidente della società italiana di psicanalisi; ha completato il quadro un elaborato redatto da una grafologa.

Uno dei pochi che ha cercato di fare chiarezza è stato Adolfo Ceretti, docente di Criminologia all’Università di Milano, che ha dichiarato “bisogna conoscere prima il fatto poi la persona, non sappiamo nulla di questo ragazzo (Filippo Turetta)…… ma per capire la sua storia bisogna ascoltarlo, e fargliela raccontare e sapergliela fare raccontare”.

In questi due passaggi: fargliela raccontare e sapergliela fare raccontare c’è, a mio modesto avviso, l’essenza del processo penale.

L’elemento peculiare dell’omicidio di Giulia Cecchettin è l’efferatezza: tanto più l’azione è efferata tanto maggiore deve essere lo studio della persona responsabile dell’atto. La perizia di carattere psicologico, psicanalitico, psichiatrico, non è l’escamotage a cui ricorre l’avvocato per la riduzione della pena, ma è la strada obbligata per procedere ad un sereno giudizio di responsabilità. Dopo, solo dopo, si può parlare di cultura patriarcale, di cultura maschilista, di turbe latenti della personalità, di messaggi inquietanti che non sono stati intercettati e raccolti. Dopo, non prima.

Un’avvocatura responsabile deve arginare la deriva che ha imboccato il processo penale per evitare che dalla notitia criminis si arrivi alla conclusione del processo con la sentenza confezionata.

Capograssi nella parte finale della nota effettua un richiamo “alla folla urlante” che evoca la scena sgradevole nei confronti del difensore di Turetta,  al quale è stato rivolto l’invito di rinunciare all’incarico, da parte di una dipendente del Ministero della Cultura, ( sic ) che sulla piattaforma change.org ha raccolto oltre 200 firme. L’analisi di Capograssi si conclude avvertendo che è  sempre incombente il rischio di ritornare dal Tribunale alla caverna, “basta un nulla”. Rischio che si concretizza quando vengono eluse le garanzie difensive, costituzionalmente statuite.

luciano revel

Luciano Revel

Il Prof. Coppi, alla fine del 2004, ha tenuto nell’aula “Vittorio Occorsio” del Tribunale Penale di Roma, la commemorazione di Luciano Revel, che era scomparso da poco. In quella solenne circostanza ha ricordato alcuni tra gli avvocati che, negli anni 60-70-80  primeggiavano nel Foro Romano: Giuseppe Sotgiu, Giuseppe Sabatini, Remo Pannain. Maria Bassino, Filippo Ungaro ed ha aggiunto “quattro erano le stelle che brillavano di luce propria: Franco De Cataldo, Adolfo Gatti, Nicola Madia, Luciano Revel ”.

Luciano Revel, allievo di Bruno Cassinelli, ha lasciato un segno nell’avvocatura per le molteplici capacità di adattare la sua arte oratoria nei diversi tipi di processo che ha affrontato, dallo scandalo Lockheed, che ha riguardato un processo per corruzione, all’omicidio del Circeo, che ha sconvolto per anni la coscienza collettiva, per l’omicidio di Rosaria Lopez e per le sevizie a Donatella Colasanti.

Nei primi mesi del 1976 una notizia pubblicata sui maggiori quotidiani italiani ha creato sconvolgimenti nel quadro politico nazionale: un gruppo di multinazionali avrebbe cercato di vendere, nel 1971, attraverso una società americana, la Loockheed, aerei al governo italiano, mediante il versamento di tangenti ad uomini politici. L’indagine ha sfiorato tre Presidenti del Consiglio Aldo Moro, Giovanni Leone e Mariano Rumor e due ministri che sono stati imputati: Luigi Gui e Mario Tanassi, il Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, il generale Duilio Fanali, il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani ed altre personalità. Il processo si è tenuto davanti alla Corte Costituzionale, in sede giurisdizionale, perché tra gli imputati vi erano due ministri sopracitati.

Presidente della Corte Costituzionale  Paolo Rossi.

Commissari d’accusa tre principi del Foro e dell’Accademia: Marcello Gallo, Alberto Dall’Ora, Carlo Smuraglia.

Luciano Revel è stato il difensore di Camillo Crociani.  Il processo è durato due anni e sono state celebrate circa cento udienze. L’arringa pronunciata da Luciano Revel, nei primi mesi del 1979, ha risentito del clima che si respirava in Italia; le fondamenta della Repubblica sono state messe a dura prova per l’esplosione del fenomeno terroristico.

Basti pensare che nel mese di marzo 78 c’è stata la strage di via Fani, a maggio l’omicidio di Aldo Moro e nel successivo mese di giugno l’incolpevole Presidente Giovanni Leone ha dovuto rassegnare le dimissioni dalla carica di Capo dello Stato, perché era ormai un bersaglio continuo da parte di alcuni quotidiani, per le ombre che si erano addensate sulla sua persona, per aver ricoperto la carica di Presidente del Consiglio nel periodo in cui è stata versata la tangente. Le Brigate Rosse quando pubblicavano i comunicati, nei 55 giorni in cui hanno tenuto Moro prigioniero, usavano costantemente un acronimo, lotta alle SIM, iniziali di Stati Imperialisti Multinazionali. La Corte Costituzionale che, di solito, viene investita di questioni di costituzionalità, nei venticinque anni di vita non aveva mai dovuto affrontare, per un anno e mezzo, un processo per corruzione che vedeva coinvolti membri del Governo Italiano.

L’avvocato con l’esordio cerca il contatto con le menti dei suoi giudici.

Nell’esordio di Revel, da autentico artista della parola, si possono cogliere i seguenti passaggi:

  1. Autenticità: giudice è termine che non ha bisogno di leziosità;
  2. Giudice: depone (rectius: lascia cadere) idee preconcette formate sulla stampa;
  3. Giudice: si inchina, non davanti ad una persona o davanti ad un’entità, ma davanti ad una virtù, o meglio davanti alla regina delle virtù, il dubbio;
  4. Giudice: chi si mette in discussione, prima di misurarsi con la prova ( rectius: con il processo) .

Conduce l’intervento lungo la direttrice prova generica e prova specifica: cerca di depotenziare i contatti con le persone che hanno avuto un ruolo nell’acquisto degli aerei e di escludere il contributo concorsuale con Gui e Tanassi. La sentenza sarà di responsabilità penale per Crociani, ma non sulla prova specifica. A mio avviso ha pesato notevolmente il clima in cui la sentenza è stata emessa. Non si spiega la condanna di Tanassi e l’assoluzione di Gui, imputato in concorso con Crociani.

La Corte Costituzionale ha statuito: “Per il Crociani infine – esclusa la concessione delle attenuanti generiche, in considerazione di vari aspetti negativi della sua personalità come lo svolgimento di attività affaristiche parallelamente e in contrasto con la sua qualità di imprenditore pubblico, il possesso di ingenti redditi di non spiegabile provenienza, la scarsa correttezza che già nel 1951 gli aveva valso l’inibizione all’ingresso al Ministero della difesa – si ritiene equa, ai sensi dell’art. 133 c.p. per il reato di corruzione aggravata ascrittogli al capo di imputazione, la pena di anni due e mesi quattro di reclusione e L 400.000 di multa.

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