Corte Costituzionale; sentenza 31 marzo 2021, n. 56; Pres. Coraggio; Est. Viganò

  1. La sentenza in commento ribadisce anche in riferimento alla fase dell’esecuzione penale la incostituzionalità di presunzioni assolute non rispondenti a dati di esperienza generalizzati, realizzando le medesime un evidente contrasto con i criteri di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Carta fondamentale dei diritti.

Il giudice delle leggi ha nello specifico dichiarato la illegittimità costituzionale della norma prevista dall’art. 47 ter, comma 01 ord. penit. (norma inserita dalla L. n. 251 del 2005) nella parte in cui ritiene che non possa essere concessa la detenzione domiciliare a persona ultrasettantenne precedentemente condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 c.p.

Peraltro, la decisione in commento, oltre alla problematica attinente al principio di ragionevolezza, ha considerato la norma oggetto di scrutinio non conforme al principio di rieducazione e di umanità della pena come sancito nell’art. 27, comma 3, Cost. (sul concetto di rieducazione e di umanità della pena vedi G. DE VERO, Corso di diritto penale, parte generale, Giappichelli, Torino, 2020 p. 177 ss.; in particolare con riferimento alle problematiche connesse alla detenzione domiciliare T. TRAVAGLIA CICIRELLO, La pena carceraria tra storia, legittimità e ricerca di alternative, Giuffrè, Milano, 2018, p. 133 ss.).

La vicenda che ha occasionato l’intervento della Corte costituzionale riguardava l’esecuzione di una condanna alla pena di anni 14 e 7 mesi di un soggetto settantottenne per reati di natura fallimentare e fiscale per i quali era stata personalmente richiesta la detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 ter comma 01 ord. penit. E’ interessante osservare come secondo l’ordinanza di rimessione, fatta eccezione per una condanna nella quale si era ritenuta sussistente l’aggravante della recidiva, nulla ostasse alla concessione del beneficio richiesto, previsto dal legislatore quale misura alternativa alla detenzione in carcere per i soggetti che hanno raggiunto la soglia di età degli anni settanta. (sulla natura della detenzione domiciliare quale misura alternativa vedi G. M. PAVARIN, Misure alternative alla detenzione, a cura di F. FIORENTIN, Giappichelli, Torino,2012, p. 249). In effetti, pare opportuno considerare come in riferimento a tale categoria di soggetti non si individuino limiti di pena per la possibilità di accedere alla misura alternativa in questione, contrariamente a quanto previsto dal comma 1 dello stesso articolo 47 ter nel quale si prevede espressamente la soglia di quattro anni, anche se costituente parte residua di maggiore pena, per alcune specifiche categorie di soggetti tra i quali gli ultrasessantenni nel caso in cui siano inabili anche parzialmente.

 

La previsione della detenzione domiciliare trova la sua ratio, per un verso, nella presunzione di affievolimento della pericolosità sociale di un soggetto proprio a causa della sua avanzata età, per altro, in ragione della compromissione dello stato di salute tale da comportare una incompatibilità con l’esecuzione della pena in carcere, pur non stabilendosi un automatismo in tal senso.

È, così, il Tribunale della Sorveglianza a dovere di volta in volta, nell’esercizio del suo potere discrezionale, valutare la meritevolezza del condannato e l’idoneità della misura al reinserimento sociale, salvo a ritenere sussistenti condizioni eccezionali che rendano inderogabile l’esecuzione della pena in carcere. (in dottrina, F. DELLA CASA, Misure alternative alla detenzione, ED, Annali, III, Milano, 2010; A. MENGHINI, Detenzione domiciliare, in F. FIORENTIN – F. SIRACUSANO (a cura di), L’Esecuzione Penale Ordinamento penitenziario e leggi complementari, Giuffrè, Milano, 2019, p. 622. In giurisprudenza Cass. pen. sez. I, n. 8712/12; Sez. I, n. 28555/08).

In merito alla posizione dei soggetti che hanno raggiunto la soglia dei settanta anni di età l’art. 47 ter, comma 01 ord. penit., a fronte della già evidenziata assenza di un limite di pena, prevede però degli ostacoli tanto di natura oggettiva quanto di natura soggettiva. Per quanto concerne i primi, si esclude l’esecuzione presso la propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza nel caso di reati previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, e dagli articoli 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice penale, dall’art. 51, comma 3 bis del codice di procedura penale e dall’art. 4 bis ord. penit.. Costituiscono cause ostative alla concessione della misura in parola, sul versante dei requisiti soggettivi, la dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza e la presenza di condanne con l’aggravante di cui all’art. 99 del codice penale, ipotesi quest’ultima oggetto del vaglio di costituzionalità.

 

  1. La Corte, facendo proprie alcune delle considerazioni svolte dal magistrato di sorveglianza rimettente, ritiene fondata la questione sviluppando interessanti argomenti che potrebbero financo aprire spiragli per ulteriori interventi demolitivi della norma

In primo luogo viene in evidenza la considerazione per la quale l’art. 47 ter, comma 01 ord. penit. è l’unica norma a fare discendere conseguenze radicalmente preclusive di una misura alternativa a carico di chi sia stato precedentemente condannato con l’aggravante della recidiva in una qualunque delle sue forme disciplinate dall’art. 99 del codice penale, paralizzando per tale via in modo draconiano la presunzione in virtù della quale si ritiene eccessivo il carico di sofferenza connesso alla permanenza in carcere superata la soglia dei settanta anni di età. (sulla natura di circostanza del reato della recidiva, in dottrina F. DASSANO, Recidiva e potere discrezionale del giudice, Utet, Milano, 1981, p. 131; in giurisprudenza tra le tante Cass. pen., sez II, 10 gennaio 2012, n. 2090; sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 5075).

Altre norme dell’ordinamento penitenziario prevedono, infatti, che una precedente condanna nella quale sia stata contestata e riconosciuta la recidiva reiterata ai sensi

 

dell’art. 99, comma 4 c.p. possano ostare a una seconda concessione dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare (art. 58 quater ord. penit.).

Proprio tale previsione palesa la marcata irragionevolezza da cui è affetto il comma 01 dell’art. 47 ter che, invece, osta, in presenza di una riconosciuta recidiva semplice, anche alla prima concessione del beneficio in parola, pur se ricollegata a una condanna inflitta in un passato lontano rispetto a quello nel quale ne è intervenuta una ulteriore per la quale deve provvedersi alla sua esecuzione. Chiarisce, per altro, la Consulta che anche qualora la recidiva venga riconosciuta unitamente alla sentenza da eseguire ciò non possa essere ex se in grado di vincere la presunzione di inidoneità del carcere per i soggetti ultra settantenni, posto il diverso oggetto valutativo che ne costituisce la base.

Se per un verso è vero che a fronte di una contestazione dell’aggravante della recidiva è compito del giudice di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, per altro verso, deve chiarirsi che tale giudizio è formulato dal giudice della cognizione al solo fine di determinare il quantum di pena da infliggere al condannato (Cass. pen. SSUU, 27 maggio 2010, n. 35738, in Diritto penale contemporaneo del 26/09/2010 con commento di M. PANZARASA, Dalle Sezioni Unite alcuni punti fermi in tema di recidiva reiterata). Rimarca, inoltre, la Corte che dal medesimo esulano tanto l’età avanzata del condannato quanto la sofferenza ulteriore connessa alla esecuzione della condanna in carcere, mentre tali elementi risultano centrali nella valutazione del Tribunale di sorveglianza a fronte di una istanza di detenzione domiciliare nel caso in cui il suo esame non fosse precluso dalla disposizione censurata.

Sulla scorta delle considerazioni svolte, il giudice delle leggi ha ritenuto non persuasiva la obiezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato che, difendendo la conformità alla Costituzione della norma censurata, riteneva non potesse parlarsi di una presunzione assoluta, ma, semmai, di una valutazione individualizzata effettuata dal giudice della cognizione nel momento in cui ha ritenuto la sussistenza della recidiva nella sentenza di condanna, posto che tale giudizio, pur realmente effettuato, non può considerarsi né attuale né specifico rispetto alle ragioni che suggerirebbero la concessione della detenzione domiciliare.

Come la Corte conclusivamente chiarisce, si tratta allora di una preclusione frutto di un automatismo non giustificabile perché ancorato ad un giudizio realizzato in periodo precedente dal giudice del merito e avente un oggetto diverso da quello rilevante ai fini della concessione al condannato del beneficio.

 

  1. Proprio su tale questione può apprezzarsi il ragionamento della Corte costituzionale, che attraverso un interessante parallelo con la materia delle misure cautelari evidenzia come debbano ritenersi irragionevoli le presunzioni di tipo assoluto che possono accettarsi solo in casi eccezionali, sempre che siano espressione di massime di esperienza generali in ragione a determinate tipologie delittuose, sfociando nella irrazionalità e

 

arbitrarietà, in violazione del principio di uguaglianza, tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali e contrari alla regola di esperienza posta alla base della presunzione stessa (E. MARZADURI, L’applicazione della custodia cautelare in carcere alla luce della nuova disciplina delle presunzioni in materia cautelare, in Leg. Pen. on line, 1° dicembre 2015; S. CARNEVALE, I limiti alle presunzioni di adeguatezza: eccessi e incongruenze nel doppio binario cautelare, in L. GIULIANI, a cura di, La riforma delle misure cautelari personali, Giappichelli, Torino, 2015, p. 114).

Mutuandosi tali principi alla materia della esecuzione penale, l’utilizzo di presunzioni assolute aggrava le perplessità già espresse nella materia cautelare e che, puntualmente, sono state prese in considerazione dalla sentenza in commento. Del resto in questa pronuncia si discute di una norma certamente animata dalla medesima logica di cui alla parallela disposizione in materia di misure cautelari (il riferimento è all’art. 275, comma 4 c.p.p., in seno alla quale si impone il ricorso alla meno gravosa misura degli arresti domiciliari salvo che sussistano particolari ragioni che, in via eccezionale, lascino emergere rilevanti esigenze cautelari).

Entrambe le norme muovono dalla identica considerazione di un maggiore bisogno riconoscibile al soggetto ultrasettantenne di cure e assistenza difficilmente assicurabili in un contesto intramurario fisiologicamente caratterizzato dalla forzata convivenza con un elevato numero di detenuti di ogni età.

Le lodevoli considerazioni della Corte costituzionale sembrano aprire qualche spiraglio anche rispetto al non condivisibile automatismo previsto per tutta una serie di illeciti che si caratterizzano per la loro non omogeneità, sia in ordine a modalità esecutive, quanto in ordine alle caratteristiche degli autori. Un esempio potrà meglio chiarire la questione. Si pensi all’ultrasettantenne condannato per detenzione di materiale pedopornografico, o di pornografia virtuale che deve scontare la pena a distanza di tanti anni dal momento di consumazione del reato e abbia, in tale lasso di tempo, affrontato un percorso terapeutico specifico. In tale ipotesi pare assolutamente non condivisibile la preclusione assoluta di un vaglio in capo al Magistrato e al Tribunale di Sorveglianza volta individuare elementi concreti sulla scorta dei quali riconoscere la possibilità di una esecuzione presso il domicilio.

Il vero problema connesso all’utilizzo di presunzioni assolute, come nell’esempio appena fatto, resta quello della possibilità di formulare ipotesi di accadimenti che testimonino in senso diverso da quello preso in considerazione dalla norma presuntiva. Come più volte è stato notato (sul punto, anche se ancora in riferimento alla materia cautelare, Corte cost., 29 marzo 2013, n. 57, in Diritto penale contemporaneo, 7 aprile 2013 con commento di

  1. LEO, Illegittima la previsione della custodia “obbligatoria” in carcere per i reati di contesto mafioso ma non per le condotte di partecipazione o concorso nell’associazione di tipo mafioso), occorre che la correlazione tra la fattispecie delineata dalla norma presuntiva e la caratteristica che la giustifica razionalmente si presenti con frequenza elevatissima nei casi concreti, ponendo altrimenti le premesse per un sistematico trattamento indifferenziato di situazioni fortemente eterogenee ( Corte cost. 29 marzo 2013, n. 57,in Foro it., 2013, 10, I, 2743 con nota di L. CALÒ).

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DIEGO FOTI – Avvocato cassazionista del Foro di Messina, Dottore di ricerca in discipline penalistiche sostanziali, docente a contratto presso l’Università degli Studi di Messina di diritto processuale penale, diritto dell’esecuzione penale e diritto della prova penale.

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