Un militare della Guardia di Finanza, già condannato dal Tribunale Ordinario, viene tratto a giudizio innanzi al Tribunale Militare e condannato anche in questa sede, perché accusato di aver posto in essere una condotta (collusione) contraria ai doveri discendenti dall’appartenenza al Corpo della Guardia di Finanza, consistente nella ideazione e consumazione delle frodi c.d. “carosello”.

 

L’Art. 3. della legge 1383/1941 dispone testualmente: “Il militare  della  Regia  guardia  di  finanza  che  commette  una violazione delle leggi finanziarie, costituente  delitto,  o  collude con estranei per frodare la finanza, oppure si appropria  o  comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui  egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l’amministrazione o  la custodia o su  cui  eserciti  la  sorveglianza,  soggiace  alle  pene stabilite dagli articoli 215 e 219  del  Codice  penale  militare  di pace, ferme le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali. La cognizione dei suddetti reati appartiene ai Tribunali militari”.

Non vi è dubbio che la fattispecie della collusione del militare della guardia di finanza sia tre la le più ambigue ed evanescenti figure di reato tra quelle previste dalle disposizioni normative ed ancora oggi, a distanza di quasi un secolo dalla sua entrata in vigore, continua a porsi quale quotidiano terreno di scontro tra le opinioni manifestate dalla dottrina e gli orientamenti seguiti dalla giurisprudenza. La prima ne segnala costantemente una sorta di desuetudine storica e tende a farne una controfigura ingrandita della corruzione; la seconda, per contro, sviluppa con rigorosa consequenzialità la premessa di un fatto storico riconducibile a più norme incriminatrici e perviene alla conclusione di sommare la distinte ed autonome risposte sanzionatorie. La descrizione della condotta tipica è tutta racchiusa nelle scarne espressioni di cui alla norma di diritto positivo: “il militare della guardia di finanza che……….collude con estranei per frodare la finanza………soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace, ferme restando le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali”. La norma trova i suoi immediati antecedenti nella legge 8 aprile 1881, n. 149, nel regio decreto 26 novembre 1914, n. 1440 e nel R.D.L. del 14 giugno 1923, n.1281. L’articolo 17 del primo testo normativo configurava come reato il fatto degli “individui della Guardia di finanza” che commettevano contrabbando o colludevano con estranei per frodare la finanza o si rendevano colpevoli di “trafugamento di valori o generi appartenenti sia al Corpo, sia agli individui”. La legge successiva (art. 16), pur dando un più adeguato assetto al reato di contrabbando, ritorna sulla figura della collusione e la confeziona nei termini del fatto del finanziere che collabora con altri per frodare la finanza, in tal modo sembrando esigere un effettivo apporto causale alla frode da altri commessa e quindi delineando un’oggettività giuridica complessa e sicuramente comprensiva anche dell’interesse finanziario, che suscitava non poche perplessità.

Durante lo stato di guerra fu emanata la legge 1383/41. Essa, da un lato, provvide alla militarizzazione del personale in servizio presso il Corpo della guardia di finanza; dall’altro, riformulò le fattispecie incriminatrici in questione e ne inasprì il carico sanzionatorio. L’intento della legge era di tutelare con maggior vigore il diritto dello Stato alla riscossione dei tributi e di assicurarsi tale più corposa tutela attraverso una particolare accentuazione del dovere di fedeltà di quei militari che avevano il compito di prevenire e reprimere gli illeciti finanziari. In essa trovò collocazione un significativo raccordo con le sanzioni previste dal codice penale militare per i reati di peculato e malversazione e trovò compiuto riscontro l’obiettivo di andare oltre la specifica previsione del contrabbando e dedurre nello speciale illecito qualsiasi violazione di leggi finanziarie costituenti delitto. Quanto alla collusione, si ritornò alla previsione originaria, ancorata all’evanescente concetto che le conferiva il titolo, depurata dalla preziosa meteora della collaborazione con altri comparsa nel testo del 1914 e qualificata dalla finalità specifica di “frodare la finanza”.

Secondo l’opinione qualificata da largo e risalente consenso, ai fini dell’integrazione del reato è sufficiente che tra il militare della guardia di finanza (intraneus) ed una persona che non faccia parte del suddetto Corpo militare (extraneus) intervenga un accordo allo scopo di frodare la finanza. Ciò nonostante, pur essendo la collusione accreditata come un accordo, è evidente come l’intero disvalore risieda nell’iniziativa del militare della Guardia di finanza. Bisogna dunque togliere il contegno collusivo dalle secche del puro e semplice accordo e trasformarlo in un’entità dotata di connotati più pregnanti e tali da rivelare, sul piano dell’oggettività comportamentale e quindi non nell’esclusiva dimensione dei fenomeni psichici o delle intelligenze criminose, la sua natura di un atto di incisiva e peculiare offesa all’obbligo di tutelare, in un qualsiasi contesto di innesco dei doveri istituzionali, gli interessi finanziari dello Stato. Il disegno riacquista un minimo di coerenza se si muove dal diverso presupposto che la collusione, pur contemplando il diretto e personale coinvolgimento di un estraneo, non si esaurisce tutta in tale patto ma richiede il compimento d’atti di per sé idonei a rivelare la circostanza che il servitore dello Stato è venuto meno al suo obbligo di tutelarne gli interessi finanziari, ha tradito la fiducia di cui era stato investito e si è schierato, in circostanze in cui era chiamato all’adempimento dei suoi doveri istituzionali di prevenire e reprimere gli illeciti fiscali e tributari, a favore di interessi contrastanti con quelli facenti capo all’Erario e posti sotto la sua qualificante tutela. E’ collusione, quindi, l’atto che esprima una scelta di campo opposta a quella istituzionale, nello specifico settore di propria competenza, coinvolgendo direttamente persone estranee al Corpo di appartenenza ed intesa alla lesione di quegli interessi finanziari e fiscali che il finanziere aveva il precipuo dovere istituzionale di prevenire e reprimere.

Quest’ultima tesi, che ha trovato riscontro in una sentenza della Corte Costituzionale, si è progressivamente consolidata, sia pure con approcci non sempre univoci, nella giurisprudenza di legittimità, ormai costante nell’escludere che l’oggetto giuridico della collusione possa identificarsi nella sola violazione dell’obbligo di fedeltà verso lo Stato. Ne consegue che l’oggetto giuridico del reato di collusione s’identifica nella tutela del bene-fine, costituito dalla necessità di proteggere più intensamente l’interesse connesso alle entrate finanziarie dello Stato; interesse affidato alla tutela dei militari della Guardia di Finanza e che deve essere protetto dal rischio di intese collusive tra i predetti militari e soggetti estranei. Non rientrano, perciò, nell’ambito della fattispecie di reato in parola, per un verso, quelle collusioni intercorse esclusivamente tra i militari del corpo anche se finalizzate a frodi fiscali e, per un altro verso, quegli accordi volti alla consumazione di reati diversi dai reati finanziari.

Quindi, ferma restando la necessità di un coinvolgimento di un soggetto estraneo, la collusione matura quando viene posto in essere un atto che esprime, nella sua concretezza ed univocità, la violazione di uno qualsiasi degli specifici doveri istituzionali del militare della guardia di finanza. Diventa a questo punto evidente che il contegno di collusione può consistere in una varietà di tipologie di condotte e che il più delle volte queste integreranno la materialità di diverse fattispecie criminose: abuso di ufficio, omissione di atti di ufficio, violata consegna, rivelazione di segreti di ufficio ed altre di analoga natura. Cioè a dire, reati in cui si materializza il contegno di infedeltà e di violazione dei doveri di ufficio, i quali perdono la loro specifica individualità e diventano parte costitutiva della più ampia e specifica fattispecie delittuosa della collusione; fattispecie diversa e nuova, rispetto alla quale la posizione dell’estraneo varia in ragione del suo concreto comportamento.

Appare dunque chiaro che la collusione è cosa ben diversa da un semplice accordo e si presenta come una variante specifica della violazione di precisi doveri istituzionali[1]. Il punto di arrivo è quindi una violazione dei doveri istituzionali posta in essere con coinvolgimento di estranei al corpo e da parte di colui che è investito della delicata, ed antitetica, missione di impedire, reprimere e denunziare qualsiasi illecito finanziario.

Fatta questa disamina del reato oggetto del capo di imputazione, per meglio comprendere i fatti contestati al militare, è doveroso rappresentare che il procedimento a carico dell’imputato non è altro che una duplicazione perfetta del procedimento instaurato dinanzi al Tribunale ordinario. Procedimento che tra l’altro risultava ancora pendente in appello al momento della condanna inflitta. Ed è vero che il reato di collusione del militare della guardia di finanza ha una sua precipua autonomia, ma è altrettanto vero che il Collegio giudicante di prime cure, in base ad un sillogismo che deve essere respinto, è giunto alla declaratoria di colpevolezza del prevenuto sulla base delle risultanze del Giudizio ordinario di primo grado. Il Collegio giudicante militare di prime cure si è limitato a fare proprie le argomentazioni di altro Tribunale ed a riportarle in sentenza.

Per tale motivo, già in sede di udienza preliminare, il difensore evidenziando la possibilità di incorrere in un’ipotesi concreta di violazione del principio del ne bis in idem[2], rappresentava che la finalità del procedimento penale militare era accertare se la condotta posta in essere dal militare integrasse gli estremi richiesti per la configurabilità del reato militare. Rappresentando inoltre che non era quella la sede per disquisire di reati ordinari. Era quindi onere del Tribunale militare accertare se il prevenuto fosse o meno responsabile del reato di collusione del militare della guardia di finanza.

La sentenza di primo grado, infatti, anziché illustrare ed argomentare le ragioni per le quali si ritengono configurati e provati i reati contestati, analizza vicende e reati che non sono certamente di competenza della Giurisdizione Militare. Ma ciò non farebbe altro che allontanare il lettore dal thema decidendum del procedimento. Ovvero, stabilire se la condotta posta in essere dal prevenuto possa o meno integrare gli estremi richiesti dalla norma incriminatrice penale militare.

Orbene, da un’attenta analisi della vastissima documentazione versata in atti e dall’istruttoria dibattimentale non è assolutamente emersa prova di questo fantomatico accordo dell’odierno prevenuto con l’extraneus. Per meglio inquadrare l’odierna vicenda, sia per il Tribunale Ordinario che per il Tribunale Militare, giunto alla condanna sulla base delle risultanze del Giudizio ordinario, il tutto scaturisce dalle mere supposizioni dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate. Oltre a questo nessuna prova è stata raccolta in nessun procedimento.

Ma procediamo con ordine, secondo la ricostruzione dei funzionari, assolutamente infondata, il coinvolgimento del militare nella gestione della società, dal quale poi il Tribunale di prime cure ha desunto l’esistenza dell’accordo, dovrebbe essere dimostrato dalle seguenti circostanze:

  • Deleghe ad operare su alcuni conti correnti della società X;
  • Finanziamenti a beneficio della società X;
  • Garanzie fideiussorie a favore della società X.

Questi sarebbero gli unici elementi che dimostrerebbero un ipotetico coinvolgimento e/o accordo. Elementi che, benché non siano stati dimostrati nel procedimento penale militare, tantomeno in quello ordinario, secondo il Collegio giudicante militare di prime cure, sarebbero stati sufficienti per dimostrare quel “famoso” accordo richiesto dalla norma incriminatrice. Se solo il Tribunale di prime cure avesse valutato anche quanto prodotto e depositato dalla difesa, certamente sarebbe giunto ad una conclusione diversa ed autonoma.

Appare evidente che trattasi di sporadiche interazioni che non possono in nessun modo dimostrare l’esistenza di un accordo tra il militare e la società X, tantomeno consentono di ascrivere allo stesso la qualifica di amministratore di fatto e/o comprovare l’esistenza di un rapporto sociale di fatto. Al massimo possono essere intese quali manifestazioni di mera affectio familiaris, atteso che la società in questione era amministrata dalla moglie e dalla cognata. Pertanto sarebbe risultato impossibile che lo stesso non avesse nel corso degli anni sostenuto le stesse soprattutto nella fase iniziale dell’attività lavorativa. Fermo restando però che ogni sostegno e/o contributo da parte del prevenuto non è stato dato sotto forma di accordo segreto. Del resto prove a sostegno di questa fantasiosa ricostruzione non sono state raccolte. Infatti, di ciò è ben consapevole anche il Collegio giudicante di prime cure che nel vano tentativo di difendere la propria ricostruzione dei fatti, al fine di dimostrare l’esistenza dell’accordo, non solo ha preso in considerazione elementi che di per sé nulla dimostrano, quali l’utilizzo da parte del Petrellese dell’autovettura della società, ma ha anche introdotto in sede penale le risultanze di accertamenti giudiziari tributari[3], che non hanno nessun valore e/o attinenza in questa procedimento, soprattutto laddove siano in antitesi con altre precedenti risultanze[4].

Fondamentale, ai fini della penale responsabilità, era dunque accertare se il prevenuto si fosse accordato con estranei al fine di frodare la finanza. Certamente non possono essere considerati esaustivi in tal senso i pochissimi elementi riscontrati dai funzionari dell’Agenzia delle Entrate. Con riferimento infatti alla delega ad operare presso un solo istituto di credito non è stato provato quali e quante operazioni avesse fatto il militare. Tra l’altro se realmente fosse stato amministratore di fatto e/o si fosse accordato con altri non avrebbe avuto soltanto una delega ad operare e sicuramente sarebbero state individuate e/o indicate e/o riportate le eventuali operazioni svolte dallo stesso nel corso degli anni. Ma così non è stato. Con riferimento invece ai finanziamenti ed alle fideiussioni personali non vi è prova che ce ne siano state altre dopo l’avvio dell’attività. Tra l’altro se realmente si fosse accordato con altri al fine di frodare la Finanza certamente avrebbe evitato di porre in essere qualsivoglia tipo di operazione a lui riconducibile.

Per comprendere meglio la peculiarità della condotta delittuosa è necessario soffermarsi sulla finalità che deve sorreggerla: l’intesa clandestina o segreta che costituisce il corpo materiale del reato di collusione deve, come già rilevato, essere animata dal fine specifico di frodare la finanza. Nel caso di specie alcuna intesa segreta era intercorsa tra il militare ed il privato: infatti tutti gli atti riconducibili al finanziere erano assolutamente palesi e, peraltro, dotati di autonoma giustificazione, in quanto sorretti da quella affectio che sembra aver mosso l’intera condotta del finanziere.

E’ collusione, quindi, l’atto che esprima un adesione contra legem a condotta contraria ai doveri istituzionali, nello specifico settore di propria competenza, coinvolgendo direttamente persone estranee al Corpo di appartenenza ed intesa alla lesione di quegli interessi finanziari e fiscali che il finanziere aveva il precipuo dovere istituzionale di prevenire e reprimere.

Quindi, ferma restando la necessità di un coinvolgimento di un soggetto estraneo, la collusione matura quando viene posto in essere un atto che esprime, nella sua concretezza ed univocità, la violazione di uno qualsiasi degli specifici doveri istituzionali del militare della guardia di finanza[5].

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Avv. Michele Dulvi Corcione – penalista – Foro di Napoli

 

[1] Perché sussista pertanto il reato occorre un accordo tra il militare appartenente alla Guardia di finanza e l’estraneo, accordo il cui oggetto sia costituito dalla “frode alla finanza”, la quale, secondo accreditata lezione ermeneutica della Corte, può consistere “nell’indicazione o apprestamento di qualsiasi espediente o mezzo fraudolento dotato di potenzialità lesiva dell’interesse alla percezione dell’entrata tributaria” (Cass., Sez. 1, 06/06/2007, n. 25819; Cass., 15/12/2005, n. 1303).

[2] Le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’articolo 28 del Codice di Procedura Penale, devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’impromovibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, sempreché i due processi abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria.

[3] Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa.

[4] Sentenza n. 2207/2018 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli: “…..La Commissione osserva che, dai riscontri documentali forniti dalla parte ricorrente, emerge che la Dichiarazione IVA/2012, relativa al periodo di imposta 2011, era stata presentata, per la “CYCLIX S.R.L.”, dalla signora DI STASIO Daniela. La qual cosa prova che è infondato il presupposto dell’esistenza di una società di fatto…..”.

[5] SANTORO Vincenzo, commento alla sentenza della Cassazione n. 49975/2009.

 

 

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