L’estrema volubilità e mutevolezza della normativa penale (sia di parte sostanziale che processuale), dovuta all’atteggiamento compulsivo e bulimico del Legislatore in questo delicato settore dell’ordinamento giuridico, rendono assolutamente cogente ed attuale il dibattito sugli effetti e le problematiche che la disciplina intertemporale/transitoria, sempre più frequentemente impiegata, produce sul diritto e sui diritti.

Da ultimo, l’occasione è data dall’emanazione, da parte del Governo, del D.L. n. 105 del 9 agosto u.s. (convertito nella L. 137 del 9 ottobre 2023), con cui si è deciso di intervenire (su richiesta espressa della D.N.A. e di alcune Procure Distrettuali, per come candidamente ammesso nel “preambolo”) mediante decretazione d’urgenza allo scopo dichiarato di arginare  gli effetti (estensivi) che una sentenza (n. 34895 del 21 settembre 2022) della prima sezione penale della Corte Suprema di Cassazione ha prodotto sulla utilizzabilità dei risultati dell’attività captativa disposta, secondo la normativa speciale previgente di cui all’art. 13 della L. 203/91, in un procedimento avente ad oggetto una fattispecie di reato (ndr. omicidio), aggravata ai sensi dell’art. 416bis1, c.p.-

La pronuncia in questione, seppure emessa da una sezione semplice, ha, infatti, affermato, esplicitando con grande lucidità ed esaustività il reale contenuto degli approdi esegetici delle Sezioni Unite “Scurato”, che nel concetto di “criminalità organizzata”, evocato dalla novella speciale emergenziale dei primi anni ‘90 quale presupposto normativo indefettibile per poterne fare ricorso, non possano farsi rientrare i delitti monosoggettivi anche se aggravati dalla sopra menzionata fattispecie accidentale speciale.

Gli ermellini hanno, quindi, cassato la decisione di merito “per avere erroneamente interpretato la Corte territoriale il principio di diritto enunciato da Sez. U, Scurato, nel senso di ritenere ricompresi, nella categoria dei delitti di “criminalità organizzata”, tutti i delitti elencati nell’art. 51 c.p.p., commi 3-bis e 3-quater, (e, quindi, per quel che qui rileva, tutti i delitti, ancorchè non associativi, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal suddetto articolo), anzichè solo i delitti di tipo associativo annoverati in quell’elenco.

 

Il Legislatore ha tuttavia deciso di intervenire, stoppando così in nuce la possibilità che l’orientamento scandito dalla prima sezione della Corte di Cassazione prendesse piede definitamente, con la seguente modifica: 1. Le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, si applicano anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

  1. La disposizione del comma 1 si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.

 

Seppure tutto ciò appare oramai ordinaria espressione del protagonismo delle componenti politicamente attive del “potere giudiziario”, che orientano la produzione normativa (a volte) esasperando l’interesse pubblico al contrasto di fenomeni criminali di particolare allarme sociale in danno di rilevanti diritti difensivi (in condizioni diverse, si sarebbe, infatti, atteso l’esito della fisiologica dialettica giurisprudenziale con eventuale pronuncia del massimo organo nomofilattico), desta, soprattutto in considerazione della tecnica normativa impiegata, particolari dubbi e perplessità la scelta di estendere l’efficacia e l’operatività della nuova disposizione di legge ai “procedimenti in corso”, risultando la stessa di dubbia compatibilità con i dettami costituzionali e, ancora di più, con le norme CEDU e con i principi elaborati dalle Corti sovranazionali.

 

Sicché, si pone la quaestio iuris di comprendere se alla disposizione di nuovo conio possa assegnarsi un’efficacia retroattiva limitata ai soli procedimenti pendenti aventi ad oggetto reati commessi prima della modifica normativa, per i quali la richiesta dell’attività intercettiva non ci sia stata o non sia stata ancora autorizzata (senza, pertanto, dovere investire della questione di illegittimità costituzionale il Giudice delle Leggi), ovvero a tutti quelli latu sensu in corso”, compresi quindi anche i processi in cui l’eccezione di inutilizzabilità è stata formulata già prima della entrata in vigore dell’art. 1 del D.L. n. 105 del 2023 ovvero poteva (e può) essere ancora utilmente eccepita sulla scorta della disposizione previgente (rendendosi necessario, in tal caso, l’apertura di un incidente di costituzionalità della norma di cui si discute, sulla cui non manifesta infondatezza si tornerà in una successivo articolo).

 

È il caso di ricordare, giunti a questo punto, che:

  • −  la norma penale sostanziale è irretroattiva se sfavorevole: nullum crimen, nulla poena sine previa lege, principio tra i più fondamentali dell’ordinamento penale e desumibile da un vasto novero di fonti (art. 7 CEDU, art. 49 della Carta di Nizza, art. 25, comma 2 Cost., art. 2 c.p.);
  • −  è viceversa retroattiva se favorevole: principio che si desume da quello di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nonché dall’art. 117 Cost. quale “trasformatore automatico” dei principi sovranazionali in principi del nostro ordinamento; ci si riferisce, quindi, a quella interpretazione estensiva dell’art. 7 CEDU che vi include anche il canone di retroattività della norma penale favorevole, che è stata propugnata dalla Corte di Strasburgo  e fatta propria anche dalla nostra Corte Costituzionale;
  • −  la norma penale processuale è retroattiva, perché gli atti processuali sono sempre disciplinati dalla normativa processuale vigente nel momento in cui devono essere compiuti, indipendentemente dal fatto che essa sia magari entrata in vigore dopo la consumazione del reato per cui si procede (tempus regit actum).

 

Ciò posto, v’è da rilevarsi come al di là dell’apparente intento del Legislatore di introdurre una disposizione di interpretazione autentica, in realtà sia stata partorita una norma che presenta tutte le caratteristiche (formali e sostanziali) delle c.d. “leggi innovative/modificative retroattive”, conducendo in questa direzione il contenuto del primo comma dell’art. 1, che non riproduce la semantica tipica delle norme di interpretazione autentica, e, soprattutto, il secondo comma, che contiene, appunto, una specifica disposizione transitoria finalizzata ad estendere gli effetti anche ai procedimenti in corso, del tutto inutile e superflua qualora si fosse effettivamente al cospetto di una vera e propria esegesi di tipo legislativo.

 

La differenza, a ben vedere, non è di poco conto per due ordini di ragioni: 1)  perché l’opzione legislativa prescelta finisce, inevitabilmente, per cristallizzare la correttezza dell’indirizzo giurisprudenziale fornito dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza del 2022 già citata; 2) perché, mentre una norma di interpretazione autentica avrebbe comportato naturalmente una efficacia retroattiva a tutte le situazioni ancora sub iudice, quella prescelta dal Governo con la decretazione d’urgenza non conduce, nonostante la presenza della disposizione intertemporale già menzionata, necessariamente nella stessa direzione, soprattutto se si vuole evitare di esporre la nuova norma alla (probabile) scure della incostituzionalità ovvero a declaratorie di contrarietà ai principi ed alle norme sovranazionali da parte della CEDU e della Corte di Giustizia Europea.

 

La disposizione transitoria andrebbe quindi intesa, a parere dello scrivente, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata, nel senso di limitarne, appunto, il suo agire retroattivo soltanto ai “procedimenti in corso” che hanno ad oggetto reati commessi prima della modifica normativa, per i quali, tuttavia, l’autorizzazione al ricorso alle intercettazioni con l’impiego della normativa emergenziale non sia ancora stata richiesta dal P.M. ovvero non sia ancora intervenuta.

 

E ciò per la semplice ragione che una retroattività eccessivamente dilatata della disciplina intertemporale (cioè nel senso che la nuova disposizione debba avere effetto rispetto a tutte le situazioni ancora sub iudice) finirebbe per violare manifestamente due pilastri fondamentali del nostro sistema giuridico: 1) la prevedibilità e l’affidabilità dell’ordinamento giuridico (che ricomprende anche le regole processuali, soprattutto quelle la cui violazione è sanzionata con l’inutilizzabilità delle prove); 2) la parità delle armi tra le parti del processo, che è espressione diretta ed inequivocabile del giusto/equo processo di cui all’art. 111 Cost. e dell’art. 6 CEDU, e che qui risulta minacciata e compromessa proprio dalla circostanza, certamente non marginale, che, come già scritto, la modifica è stata sollecitata dalla istituzione più importante della parte processuale pubblica nella lotta alla criminalità organizzata.

 

E peraltro, anche se per le norme processuali (salvo che per quelle a contenuto comunque sostanziale) non vale la copertura dell’art. 25, comma 2, Cost., vi è comunque il canone ordinario del tempus regit actum a fungere da baluardo insormontabile per una opzione esegetica alternativa a quella suggerita dallo scrivente, poiché, per la casistica di specie, il momento da tenere in considerazione è quello in cui è intervenuta l’autorizzazione a porre in essere l’attività captativa e, quindi, lo statuto normativo che in quel determinato momento ne regolava i presupposti e le modalità esecutive ai sensi del testo di cui all’art. 13 della L. 203/91 ante riforma, per come interpretato dalla più recente giurisprudenza di legittimità.

In altri termini, si intende dire come non appaia giuridicamente corretto pretendere di applicare la nuova norma alla fase valutativa rimessa al Giudice della cognizione (o anche a quello della cautela nel procedimento incidentale de libertate), al cui cospetto è stata eventualmente posta la questione dell’inutilizzabilità dei risultati intercettivi, mentre l’emissione del decreto autorizzativo, da parte del Gip durante la fase delle indagini, si è fondato su un testo normativo differente (in quel momento vigente).

Ci troveremmo, infatti, ove si accedesse a questo tipo di lettura nella paradossale situazione di avere una valutazione giudiziale in ordine alla eccezione di inutilizzabilità su un testo normativo diverso rispetto a quello in base al quale il provvedimento autorizzatorio all’ascolto si è formato.

Si tratta di due segmenti procedimentali che, a ben vedere, non possono avere orizzonti normativi differenti, proprio perché l’innesto legislativo di cui si dibatte non è una Legge di interpretazione autentica ma, come già chiarito sopra, una nuova norma a cui si è inteso attribuire efficacia retroattiva.

 

Sul punto, particolarmente illuminante risulta il pregevole ed autorevole (per la fonte e per il suo contenuto) insegnamento delle SS UU della Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 27919/11), che, chiamate a dirimere il contrasto insorto tra le sezioni semplici «se la misura cautelare in corso di esecuzione, applicata prima della novella codicistica che ha ampliato il catalogo dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza esclusiva della custodia carceraria, possa subire modifiche solo per effetto del nuovo e più sfavorevole trattamento normativo», hanno affermato che ciò non sia assolutamente possibile con argomentazioni del tutto trasferibili alla vicenda in questione.

Si legge, infatti, nella suddetta pronuncia: “Naturalmente, non è in discussione il canone tempus regit actum utilizzato in quella pronunzia quale prima base per orientare la soluzione del problema. Anzi, la vitalità del principio deve essere ribadita ed ulteriormente esplicitata. L’antica regola costituisce la traduzione condensata dell’art. 11 delle preleggi. Essa enuncia che la nuova norma disciplina il processo dal momento della sua entrata in vigore; che gli atti compiuti nel vigore della legge previgente restano validi; che la nuova disciplina, quindi, non ha effetto retroattivo. L’indicato canone corrisponde ad esigenze di certezza, razionalità, logicità che sono alla radice della funzione regolatrice della norma giuridica. Esso, proprio per tale sua connotazione, è particolarmente congeniale alla disciplina del processo penale. L’idea stessa di processo implica l’incedere attraverso il susseguirsi atomistico, puntiforme, di molti atti che compongono, infine, la costruzione. Tale edificazione rischierebbe di crollare dalle radici come un castello di carte se la cornice normativa che ha regolato un atto potesse essere messa in discussione successivamente al suo compimento, per effetto di una nuova norma. Per questo, il principio tempus regit actum significa in primo luogo che, di regola, la norma vigente al momento del compimento di ciascun atto ne segna definitivamente, irrevocabilmente, le condizioni di legittimità, ne costituisce lo statuto regolativo: un atto, una norma. Il brocardo costituisce una guida logica, semplice e certa per il compimento dell’atto e consente di risolvere spesso senza incertezze i problemi di diritto intertemporale che insorgono, o possono insorgere, quando una determinata materia sia regolata da norme di diverso contenuto che si susseguono nel tempo”.

 

Ecco, allora, che può dirsi, senza suscitare particolare clamore, che per il caso di specie si è determinato un “giudicato endoprocedimentale” nel momento in cui il decreto autorizzativo alle intercettazioni si è formato contenendo un errore (almeno stando al recente indirizzo fornito dalla prima sezione della Corte Suprema) interpretativo del testo normativo previgente, che non può essere più surrogato e mutato in una prospettiva sanante da innesti legislativi innovativi (anche in presenza di una disposizione transitoria espressa) proprio in ragione dell’esaurimento della formazione di quell’atto processuale.

Sicchè, la valutazione compiuta dal Giudice al cui cospetto viene eventualmente eccepita l’inutilizzabilità costituisce un momento successivo, a cui viene affidato soltanto il compito di svolgere, nel contraddittorio tra le parti, una ricognizione con effetti dichiarativi di un errore in procedendo irrimediabilmente già verificatosi.

Il giudicato insensibile ai mutamenti giurisprudenziali deve, in conclusione, considerarsi non solo quello ovvio coincidente con lo spirare definitivo del processo ma anche quello endoprocedimentale appena descritto.

 

Peraltro verso, deve evidenziarsi, poi, come la casistica di cui si discute sembra presentare delle analogie con l’arcinota vicenda “Scoppola”, atteso che, trovandoci anche qui al cospetto di una norma di tipo processuale/sostanziale (l’inutilizzabilità della prova intercettiva ha ricadute sul versante della responsabilità e, quindi, sull’esito finale del processo, da intendersi nel senso di possibilità o meno di irrogare una pena), dovrebbe applicarsi la disciplina temporale più favorevole, soprattutto nei confronti di quei imputati che avevano eccepito l’inutilizzabilità dei risultati captativi in difetto dei presupposti richiesti dall’art. 13 della Legge 203/91 prima della recentissima modifica.

 

E del resto, ciò servirebbe a garantire il cittadino da abusi legislativi irragionevoli e, per di più, sollecitati dalla parte processuale Pubblica (ndr. D.N.A. e Procure Distrettuali territoriali) che non ha esitato ad innescare, in spregio alle regole del giusto/equo processo e della parità delle armi, la leva normativa, petendo ed ottenendo il mutamento delle regole del gioco a partita abbondantemente iniziata, con lo scopo evidente di incidere sui processi già in corso nei quali l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione delineatosi avrebbe generato l’inutilizzabilità dell’attività captativa.

 

Sono tempi bui per il diritto e per i diritti, anche se fa piacere constatare che anche “nell’altro campo” c’è chi, con apprezzabile autonomia concettuale e politica, condivide le preoccupazioni di una deriva autoritaria.

 

Ci si riferisce al pensiero del dott. Musolino, procuratore della Distrettuale di Reggio Calabria, che, nel corso di una intervista rilasciata al “Dubbio”, ha dichiarato, con ciò intendendo forse ammonire i suoi colleghi più oltransisti e manichei, che “il Parlamento è preda del populismo penale e che a rimetterci sono i diritti”, aggiungendo che “se le regole vengono cambiate, a cagione di un mutamento giurisprudenziale, importanti risultati processuali possono venire meno. Questo è già avvenuto dopo le sezioni unite “Cavallo”: c’è sempre un prezzo da pagare ogni qualvolta un intervento della Cassazione determina una maggiore tutela dei diritti. Un prezzo che bisogna accettare, per quanto caro esso sia, perché è questa la dinamica di affidamento e protezione dei diritti che Costituzione affida alla giurisprudenza”.

 

Un pensiero (stranamente) perfettamente armonico con quello di Giorgio Spangher secondo cui “quando la giurisdizione dà delle interpretazioni di garanzia c’è una parte della magistratura, quella soprattutto dell’Antimafia, che reagisce sostenendo che i principi stabiliti in esse non siano funzionali agli accertamenti. E la politica si piega attuando correttivi addirittura a decisioni delle Sezioni Unite. La politica invece resta inerme dinnanzi a situazioni di minore tutela dei diritti nel nostro codice di rito; per questi casi occorre attendere che la giurisdizione, nei limiti, si adegui alle decisioni di maggiore tutela delle garanzie della Corte Costituzionale, della CEDU e della Corte di Giustizia europea”.

 

C’è, quindi, (forse) ancora per le vicende future un barlume di speranza se i protagonisti del processo iniziano a discutere abbandonando le barricate ideologiche, funzionali soltanto ad interessi di parte piuttosto che all’affermazione del diritto e dei diritti.

Per risolvere il problema segnalato bisognerà, tuttavia, aspettare, con molta probabilità, un intervento del Giudice delle Leggi o delle Corti sovranazionali.

nell’imputazione.

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Avv. Letterio Rositano

Avvocato penalista componente del direttivo della Camera Penale di Palmi  

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