Il trascrittore forense come “autore” della prova.

          Nel libro “Il nome della Rosa“, Umberto Eco ci descrive lo scriptorium dell’abbazia, luogo dove anonimi e pazienti copisti si dedicavano a tramandare i testi sacri, producendone preziose copie che sopravvivessero al trascorrere del tempo. Di queste antiche figure si occupa anche uno straordinario libro di Luciano Canfora, “Il copista come autore“, dove apprendiamo come il monaco amanuense non fosse un semplice copista ma fosse, in realtà, il vero artefice dei testi che tramandava. Leggeva cioè il testo di origine e lo riscriveva materialmente, con la conseguenza che qualsiasi errore o inesattezza trascrittiva si riverberava negli esemplari successivi.

La filologia è, appunto, quella disciplina che si occupa proprio di effettuare il percorso inverso: partire dall’esemplare finale (per esempio, il testo de La Divina Commedia) e risalire nel tempo fino a scovare l’archetipo primo del testo, cioè il più antico esemplare (diverso dall’originale) da cui sono discese tutte le versioni superstiti che sono giunte ai nostri occhi così da individuare eventuali errori di trascrizione che possono essersi tramandati.

          I libri di Eco e di Canfora ci riguardano più di quanto immaginiamo. A partire da quelle pagine possiamo infatti proporre una riflessione sul “trascrittore forense come autore”.                

          Se volessimo applicare i canoni della filologia e della critica testuale alle trascrizioni delle intercettazioni, potremmo sostenere come la conversazione intercettata sia la versione originale, l’esemplare perso (difatti quella conversazione, così come è avvenuta, è avvenuta una sola volta); come la sua registrazione su supporto audio sia  dunque l’archetipo, cioè l’esemplare più prossimo alla conversazione originaria, la primissima riproduzione di quest’ultima; e infine, come la trascrizione forense sia assimilabile alla trascrizione del copista, produttore di un documento che “testimoni” quella conversazione.

          Sappiamo che sulla base di quelle stesse trascrizioni, in prima battuta effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini, possono essere richieste ed emesse ordinanze di custodia cautelare. Sappiamo anche che quelle stesse trascrizioni, ormai pubbliche, spesso vengono riportate, citate, messe in risalto dai mass media. Le trascrizioni forensi, come quelle dei copisti amanuensi, vengono presentate come fedele riproduzione dell’archetipo intercettato e come tale vengono intese, sia dalla magistratura, sia dall’opinione pubblica. Su quelle trascrizioni, su quelle discendenze così diverse dall’archetipo intercettato, gli avvocati stessi valutano l’adozione di strategie difensive, ritenendo il prodotto trascritto identico all’originale ascoltato. Quante volte usiamo l’espressione “ho letto l’intercettazione”, ricorrendo a una semplificazione, a una metonimia per dire che abbiamo letto una riproduzione testuale di un dato fonico. Questa espressione, in realtà, rappresenta il radicato e inconscio convincimento che vi sia una sostanziale identità tra conversazione registrata e conversazione trascritta: “leggiamo” la trascrizione perché siamo portati a ritenere che la conversazione che vediamo sulla carta corrisponda all’archetipo intercettato.

          La Corte di Cassazione ci rassicura del fatto che sia proprio così, che della trascrizione non dovremmo occuparci più di tanto: la trascrizione costituirebbe una banale rappresentazione della prova che risiede nel dato fonico, pertanto si tratta di un’attività materiale che non necessita di alcuna competenza specialistica. In sostanza: poiché la trascrizione rappresenta ma non è la prova, che è costituita dalla registrazione audio, secondo gli Ermellini possiamo disinteressarci del grado di attendibilità di questa rappresentazione. Il trascrittore, dunque, viene assimilato a un dattilografo.

          Sia sufficiente citare una delle numerose sentenze della Corte di legittimità, che sintetizza questo orientamento, ormai dominante: “[…] l’attività di trascrizione si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicanti l’acquisizione di alcun contributo tecnico-scientifico. […] La persona incaricata delle trascrizioni non deve possedere particolari competenze, non apporta una sua “conoscenza” al processo, non incrementa il materiale conoscitivo. Il rinvio operato dall’art. 268, comma settimo cod. proc. pen. all’osservanza “delle forme, dei modi e delle garanzie, previsti per l’espletamento delle perizie”, è solo funzionale ad assicurare che la trascrizione delle registrazioni avvenga nel modo più corretto possibile.  In sintesi: la prova è rappresentata dalle registrazioni delle conversazioni intercettate, che, costituendo atti irripetibili, fanno parte del fascicolo del dibattimento; la trascrizione costituisce solo la modalità “principale” attraverso cui il contenuto di quella prova è resa “fruibile” nel processo” (Cass., V Sez. Penale, sent. n. 12737 del 17.2.2020, Cotugno + altri).

          Ecco dunque la teoria del “Grado Zero” della trascrizione: per trascrivere bastano un paio di cuffie e una buona volontà. Audio ergo transcribo: facile. Si tratta, tuttavia, di un convincimento totalmente errato e pericoloso. Errato, perché in contrasto con decenni di ricerche e analisi di linguistica forense, sia italiane che internazionali. Pericoloso perché legittima una incuria, una disattenzione e una sciatteria nell’attività di trascrizione idonee a determinare una rischiosa alterazione della rappresentazione della prova e, dunque, dell’accertamento del fatto.

 

 

  1. La trascrizione forense in Italia.

          La posizione della Cassazione viene innanzitutto smentita da un dato: se la trascrizione forense consistesse realmente in una meccanica “rappresentazione” dell’audio intercettato, non si spiegherebbe la ragione per la quale sulla medesima fonte audio possiamo avere trascrizioni del tutto difformi.

          Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto in Italia non abbiamo un albo dei trascrittori, cui accedere a seguito di specifici esami, che legittimino il riconoscimento di competenze e professionalità.

          D’altronde il codice di procedura penale prevede che il trascrittore sia scelto tra “periti”, cioè tra coloro che hanno una esperienza “pratica”, ma non necessariamente una formazione specialistica, né il possesso di specifiche conoscenze. In Italia viene continuamente confusa l’esperienza (termine dal quale deriva la parola “perito”), con la competenza. In alcuni Tribunali, per potersi iscrivere all’albo dei periti, è sufficiente depositare un determinato numero di elaborati tecnici già condotti, non già dimostrare il possesso di titoli che garantiscano la competenza necessaria a trascrivere: si chiede cioè quali perizie o consulenze il trascrittore abbia già espletato, e mai quali competenze abbia. Senza dubbio nel nostro Paese contiamo una grande quantità di trascrittori capaci e scrupolosi, ma quasi tutti in ragione dell’esperienza personale maturata sul campo, non già di specifiche competenze.

          A tal proposito si consideri l’esito di una ricerca condotta dalla Commissione sulla Linguistica Giudiziaria della Camera Penale di Roma, presentata l’8 marzo del 2020. Si è trattato di un sondaggio, proposto alle trascrittrici e ai trascrittori iscritti all’albo dei periti del Tribunale di Roma, con il quale si chiedeva di fornire informazioni sull’attività di trascrizione. Ebbene, uno dei primi dati rilevati è proprio la totale eterogeneità dei percorsi formativi da cui provengono. E’ infatti emerso come l’84% dei trascrittori avesse conseguito un diploma e come, tra questi, il 56,53% presso un istituto tecnico-professionale, il 13,04% presso un liceo artistico o istituto d’arte, l’8,69% presso un liceo classico o scientifico e il 21,74% presso un istituto magistrale[1]. Dunque questo dato evidenzia come l’attività di trascrizione forense possa essere condotta da chiunque, qualunque sia il percorso formativo: abbiamo trascrittori diplomati e laureati, trascrittori formati nelle discipline umanistiche e altri formati in quelle scientifiche. In Italia trascrittore può diventare chiunque.

          Inoltre in Italia non sono previsti a livello istituzionale specifici protocolli sulle trascrizioni, linee-guida o raccomandazioni ufficiali. Il risultato è che ciascun trascrittore segue una propria metodologia, con la conseguenza che, non avendo un modello unico cui riferirsi, la trascrizione finale prodotta non potrà essere confrontata con un altra, redatta secondo regole assolutamente personali, proprie di un altro trascrittore. Nel corso della ricerca cui abbiamo fatto riferimento, per esempio, è emerso come nelle trascrizioni il segno interpuntivo dei puntini di sospensione sia utilizzato indifferentemente e cumulativamente per indicare sia la sovrapposizione di più voci, sia l’interruzione di un turno da parte di un altro interlocutore, sia per segnalare momenti di pause e di silenzio (senza avere ben chiara la distinzione tra questi due fenomeni). Gli stessi puntini di sospensione, poi, talvolta sono indicati tra parentesi tonde, talvolta tra parentesi quadrate, talaltra senza parentesi. Questo caos determina un effettivo vulnus nell’esercizio della difesa: il difensore che nella lettura di una trascrizione incontrasse i puntini sospensivi, sarebbe in grado ci comprendere quale significato attribuirvi? Significa che un interlocutore ha interrotto un altro? che i due interlocutori si sono sovrapposti nei turni? che qualcuno è rimasto in silenzio? La trascrizione è davvero una “rappresentazione meccanica” che garantisca in modo oggettivo il contenuto di ciò che è stato intercettato? Oppure non è forse il frutto di competenze (e incompetenze), di scelte consapevoli o inconsapevoli, di criteri soggettivi del trascrittore? dunque, in una parola, non è forse la trascrizione il prodotto di quel trascrittore, che diventa a tutti gli effetti l’ “autore” del dato probatorio finale?

          Non avremmo interesse a interrogarci sulla fedeltà della trascrizione, se il processo penale non si basasse sulle parole, se le ordinanze di custodia cautelare, le sentenze, le strategie difensive, i titoli di giornali non si formassero sulla base delle parole trascritte più che su quelle pronunciate e intercettate. Ecco perché la questione dell’affidabilità della trascrizione forense incide sull’attuazione del giusto processo.

          Tutto il tema può esser sintetizzato osservando un dato: quando leggiamo la trascrizione di una intercettazione constatiamo come il testo sia pulito. La trascrizione rappresenta una finzione, secondo la quale il dialogo intercettato si sarebbe svolto in modo ordinato, lineare: il turno di parola viene di volta in volta preso dall’altro interlocutore in modo fluido, senza pause, esitazioni, sovrapposizioni, indecisioni, negoziazioni, conflitti. La trascrizione offre dunque una rappresentazione lineare della conversazione intercettata. Possiamo legittimamente dubitare però del fatto che nella realtà quella conversazione sia andata realmente in quel modo. Nella trascrizione scompare l’oralità originaria: scompare la prosodia, scompaiono i fenomeni paraverbali, scompaiono le sovrapposizioni dei turni, scompaiono le pause e i silenzi, scompaiono spesso gli incipit delle conversazioni (spesso anche gli excipit, cioè le chiusure).

          Nella trascrizione spesso si dissolve tutta la originaria ricchezza della oralità. Le ragioni di questa banalizzazione all’essenziale risiedono nella finalità della trascrizione stessa, che è non già quella di “rappresentare” il dato fonico (come sostiene la Cassazione), ma quella di renderlo leggibile a tutti i costi, anche a costo di una estrema semplificazione.

          Si consideri, per esempio, come nelle trascrizioni siano presenti intere sequenze della conversazione censurate dietro gli omissis. Gli omissis sono una scelta “politica” del trascrittore: costui sceglie di omettere una parte della conversazione perché, persino del tutto in buona fede, la ritiene “irrilevante” ai fini della comprensione complessiva della conversazione utile alle indagini. Gli omissis sono frutto di una scelta, sono esercizio di potere discrezionale di un singolo. Sono creazione di un nuovo evento linguistico, del tutto diverso da quello originario intercettato. Gli omissis pertanto (altrettanto potremmo dire delle pause e dei silenzi non trascritti, della sovrapposizione dei turni di parola non annotata, delle parole in dialetto mal comprese) dimostrano come la trascrizione spesso contenga un’alterazione della rappresentazione della conversazione registrata. Poiché la registrazione costituisce la prova della conversazione, la sua trascrizione rischia di rappresentare in modo alterato una prova, nel senso (etimologico) che quest’ultima diventa “altro”. Il trascrittore come autore, appunto.

 

  1. Il trascrittore e le illusioni acustiche

 

          La Cassazione ignora un ulteriore profilo, cui implicitamente abbiamo già fatto cenno, ma sul quale occorre spendere qualche parola in più. Sostenere che la trascrizione forense sia un’attività “meccanica” significa presupporre che il soggetto che ascolta un dialogo intercettato sia “terzo estraneo”, impermeabile dunque al processo comunicativo che ascolta. Questo è un convincimento radicalmente respinto dagli studi di linguistica forense, che sottolineano al contrario il ruolo di partecipazione attiva dell’ascoltatore, sia esso direttamente inserito o meno nell’interazione[2].

          La percezione di una parola o di una frase richieda una complessa attività analitica, di elaborazione e interpretazione che coinvolge numerose componenti del linguaggio come quello fonetico, fonologico, lessicale, sintattico e semantico[3]. In questo lungo percorso qualcosa può andar perso e qualcosa può alterarsi. Ecco perché non può sostenersi una totale coincidenza tra ciò che un soggetto percepisce e la realtà acustica oggettiva: può accadere che lo stimolo acustico non sia percepito oppure che venga percepito uno stimolo in realtà inesistente.

          Una delle più chiare evidenze del ruolo attivo di chi, come il trascrittore, ascolta dall’esterno una conversazione è costituita dal fenomeno delle illusioni percettive. Esemplare è, a tal proposito, uno specifico fenomeno noto come “effetto Mondegreen”. Si tratta della percezione di una parola o di una frase diversi da quelli realmente prodotti. Pensiamo a  tutte le volte in cui alcune frasi o parole di un brano musicale vengono percepite in modo diverso dal testo originario: nella famosa canzone di Fossati, la frase “ci vedrete in crinoline come brutte ballerine” è stata da molti percepita in modo diverso, sostituendo il termine poco conosciuto “crinoline” con un altro conosciuto (per esempio, “in prime linee”). In sostanza, la parola che è stata percepita è stata intesa assimilandola a un’altra, presente nel vocabolario personale di chi ascolta. Si verifica, in sostanza, una errata interpretazione della percezione avvenuta: i fonemi percepiti vengono organizzati in sillabe e in parole errate, la riorganizzazione di ciò che è stato percepito viene effettuata in modo non corretto. Lo studio di questo fenomeno ha consentito di rilevare come l’ascoltatore attui complesse strategie nel corso della percezione, tutte finalizzate ad acquisire non solo la miglior qualità del dato percepito ma anche ad attribuirgli a tutti i cosi  un significato[4].

          Questa continua attività di organizzazione dei dati percepiti si riscontra soprattutto nel parlato colloquiale, ancor di più se dialettale, quello cioè solitamente oggetto di intercettazioni. Si tratta, infatti, di un linguaggio “ipoarticolato”, vale a dire caratterizzato da fenomeni di maggiore fluidità esecutiva, con frequenti eliminazioni di intere sillabe di una parola (come nel romanesco, ” Amo’ ” per dire “amore”)[5].

          In questi casi l’ascoltatore-trascrittore percepirà segnali vocali incompleti e insufficienti e, pertanto, sarà portato a ricorrere ad altri elementi, soprattutto di tipo extralinguistico, ad attuare aspettative e previsioni. Nella percezione di una frase interverrebbe dunque una sorta di calcolo di previsione da parte dell’ascoltatore, il quale, basandosi sui dati in proprio possesso (per esempio, conoscenza o meno degli interlocutori, del contesto nel quale l’interazione è inserita, del lessico utilizzato, della varietà linguistica impiegata), nonché sull’ampiezza del proprio vocabolario, formula una rosa più o meno estesa di possibili parole o frasi che potranno seguire quella percepita[6].

 

  1. Il trascrittore e la “previsione” dell’ascolto.

          Chi trascrive, dunque, spesso può esser portato a trascrivere ciò che “prevede” di ascoltare, anziché ciò che ascolta. Il meccanismo è molto semplice, anzi quasi banale: è quello per il quale se noi non percepiamo bene un segnale, o non lo sentiamo o non lo comprendiamo o non lo decodifichiamo, cerchiamo comunque di “sistemarlo” all’interno della nostra mappa cognitiva. E’ un fatto di economia energetica.  Nell’ambito della teoria della percezione e della trascrizione forense è stato infatti sottolineato che “il parlante può ipoarticolare le proprie produzioni linguistiche, perché l’ascoltatore, lungo tutto il percorso che va dalla percezione alla comprensione, non si basa solo ed esclusivamente sul segnale ricevuto, ma ricorrerà a fattori esterni a esso, cioè a tutto ciò che l’intera situazione comunicativa offre e che può tornare utile per decifrare un messaggio, anche quando questo si presenta degradato[7].

          In sostanza l’ascoltatore/trascrittore integra continuamente ciò che ascolta e, in tali ipotesi, “crea” la parola, la frase. Dunque l’ascoltatore partecipa attivamente e condiziona ciò che egli stesso ascolta[8].

          Il Dipartimento di Fonologia dell’Università della Calabria ha condotto una ricerca nel corso della quale alcuni gruppi di persone hanno partecipato a prove di ascolto di 420 parole diverse, coperte da rumore bianco, quindi scarsamente comprensibili[9]. La tabella che segue sintetizza i risultati.

 

Totale parole coperte da rumore bianco sottoposte al test: 420

Parole percepite correttamente

Risultato in percentuale

 

 

 

Quando le parole vengono isolate dal contesto

127

31.75%

Quando le parole vengono inserite nel contesto di una frase percepibile

381

90.71%

Quando le parole vengono inserite nel contesto di un periodo

403

95.72%

 

          Come emerge dallo schema, queste parole venivano fatte ascoltare prima isolate, successivamente inserite in frasi e in brani chiaramente percepibili. Lo scopo della ricerca era quello di verificare fino a che punto l’ascoltatore, per comprendere una parola coperta da rumore, si affidi esclusivamente al segnale acustico percepito ovvero al cotesto nel quale è inserita la parola, nonché alle proprie personali esperienze linguistiche e al complessivo significato dell’enunciato. In realtà la maggior parte delle persone, dovendo comprendere la parola coperta dal rumore, ha fatto affidamento più al contesto della frase o del brano nei quali era inserita, piuttosto che al dato acustico vero e proprio[10].

          Lo studio ha pertanto confermato un dato pacificamente acquisito nei lavori di linguistica forense, che contrasta con l’assunto della Cassazione: il riconoscimento di una parola avviene prima che questa venga completamente udita e il contesto e il grado di prevedibilità sono elementi estremamente rilevanti nella percezione e nella successiva trascrizione. Lo stesso vocabolario personale posseduto dal trascrittore costituisce un elemento che incide sulla percezione delle parole. Dunque, l’ascoltatore focalizzerà la propria attenzione non solo sul dato acustico, ma anche su altri elementi, ricorrerà alle proprie personali conoscenze, alle proprie previsioni, così da ricostruire le parti di segnale vocale non chiaramente ricevute[11].

          La conclusione è che “spesso il trascrittore tende a interpretare la parola non intellegibile, così però corre il rischio di proiettare la propria personale visione e interpretazione della interazione in corso e di osservare e percepire la conversazione attraverso le proprie lenti[12].

          Ecco la ragione per la quale chi trascrive, sia un agente operante o un perito, non dovrebbe essere messo a conoscenza dell’attività di indagine, degli obiettivi, delle ipotesi di reato, proprio allo scopo di evitare un ascolto proiettivo e la trascrizione delle proprie aspettative piuttosto che di ciò che si è ascoltato. Opporsi alla consultazione da parte del perito di atti che possano “orientare” le attese nel suo ascolto è esigenza che un difensore dovrebbe manifestare, per esempio, in occasione del conferimento dell’incarico. Sul punto è doveroso richiamare quanto è stato laconicamente osservato in uno studio di linguistica forense, di cui forniamo la traduzione dall’inglese: “più il trascrittore è coinvolto nel processo (come nel caso di un poliziotto che ha partecipato alle indagini), più le sue aspettative lo guideranno nella interpretazione[13].

 

  1. Gli “Omissis”, le pause, i silenzi, le intonazioni.

 

          Negli studi relativi alle trascrizioni forensi è stato rilevato come una trascrizione affidabile, sia essa eseguita dalla polizia giudiziaria piuttosto che da consulenti e periti, tendenzialmente dovrebbe riportare tutto ciò che è stato detto, senza manipolazioni, decurtazioni, interpretazioni, omissioni da parte del trascrittore[14].

          In un noto studio è stato dimostrato come nel corso di una conversazione il carico informativo sia veicolato, per il 55%, dagli aspetti cinesici (movimenti del corpo, della testa, articolazioni muscolari del volto); per il 38% dagli aspetti prosodici (intonazione, velocità, pause, silenzi…) e solo per il 7% dalle parole, cioè dalla componente strettamente verbale[15].     

D’altronde l’art. 266 c.p.p. stabilisce che il contenuto dell’intercettazione è costituito dalle “conversazioni o comunicazioni”, non dalle “parole dette”. Dunque, oggetto di intercettazione è il complesso evento comunicativo che si è realizzato. La trascrizione, conseguentemente, dovrebbe restituire l’interezza dell’evento comunicativo, compresi i  fenomeni prosodici come l’intonazione, le pause, i silenzi.

          La comune esperienza ci consegna, al contrario, una realtà diversa: assai frequentemente le trascrizioni delle conversazioni intercettate, soprattutto quelle eseguite nella fase delle indagini preliminari, contengono l’inclusione di omissis nonché proposte interpretative dello stesso trascrittore, spesso afferenti a personali traduzioni di modi di dire e di espressioni gergali, dialettali o specialistiche. Quasi mai, inoltre, vengono trascritte le componenti prosodiche del parlato, e anche le pause e i silenzi, nonché le sovrapposizioni di parole tra gli interlocutori, solitamente vengono riportate in modo poco preciso, spesso ricorrendo ai comuni punti di sospensione (si ricorre alle varianti: “parole sovrapposte”, “incomprensibili”, “voci sovrapposte” ed espressioni simili).

          Tali prassi, tuttavia, impediscono all’organo inquirente prima e alle parti processuali e al giudice poi di trarre dalla conversazione captata quanti più elementi utili per una completa valutazione dell’elemento di prova, che certamente non può prescindere dagli aspetti prosodici della conversazioni: pause, silenzi, durata degli stessi, sovrapposizione e interruzione dei turni di parola, abbassamento del tono della voce, false partenze, fenomeni di riparazione sono fondamentali per comprendere il senso della “conversazione” intercettata.

          Siamo così sicuri che nel corso di una intercettazione, il silenzio restituito da un interlocutore a una domanda sia privo di rilevanza probatoria e difensiva e, quindi, meriti di non essere trascritto? Siamo così sicuri che siano privi di rilevanza le modalità prosodiche con le quali una persona ha formulato una frase, un periodo? il suo tono, la velocità, l’intonazione, una falsa partenza.

          Dunque la trascrizione deve essere quanto più possibile completa affinché possa consentire di rilevare informazioni utili, eventualmente da confermare in sede di ascolto diretto della registrazione. Solo una trascrizione esauriente e integrale di ciò che è stato captato consentirebbe agevolmente un’analisi del dato processuale.

          Se prendiamo in esame, per esempio, l’avvicendamento dei turni di parola (interruzioni, sovrapposizioni), constatiamo come nella prassi questi vengano trascritti con l’inserimento dei punti sospensivi in corrispondenza più o meno delle reciproche interruzioni da parte degli interlocutori. In tal modo però non è possibile rilevare né i momenti precisi nei quali si verificano le interruzioni, né le parti di parole o frasi che si sovrappongono. Tale aspetto potrebbe apparire di scarsa utilità ai fini processuali, eppure gli studi di sociolinguistica e di analisi conversazionale hanno rilevato che “il rispetto del turno di parola è più basso quanto più bassa è l’estrazione socioculturale degli interlocutori, quanta più alta è la confidenza che lega, quanta più intensa è la partecipazione emotiva prodotta dall’interazione comunicativa in atto (per cui sono prevedibili i “picchi” di sovrapposizione proprio in corrispondenza ad argomenti pertinenti alle indagini, dato che i reati sono per loro natura emozionalmente non neutri)[16].

          Persino le pause e i silenzi non sono “vuoto fonico” ma sono enunciati veri e propri, con la conseguenza che ne sarebbe opportuna l’annotazione con la indicazione della durata del loro protrarsi.

 

  1. Una battaglia di civiltà giuridica: occuparci della scientificità delle trascrizioni.

 

          È pertanto evidente come ogni trascrizione sia inevitabilmente l’esito di una scelta finale, conseguente a pregresse selezioni effettuate dal trascrittore in modo più o meno consapevole. Sotto questo profilo, pertanto, possiamo ritenere come la sua attività non sia solo descrittiva ma anche e soprattutto, saremmo tentati di dire, ontologicamente valutativa.

          Ecco venir meno dunque quel fallace e diffuso convincimento secondo il quale la comunicazione captata coinvolga solo gli interlocutori della stessa e che l’ascoltatore-trascrittore abbia un ruolo passivo e non ricorra mai al proprio bagaglio conoscitivo, alle proprie aspettative, ai propri schemi mentali, alle proprie previsioni.

          Dunque non bastano un paio di cuffie per effettuare una trascrizione attendibile, nonostante il contrario e a-scientifico convincimento della Corte di Cassazione.

          Le considerazioni che precedono vorrebbero evidenziare la necessità che l’ordinamento giuridico preveda percorsi formativi adeguati per i trascrittori, fondati sulla ricerca sul parlato, che consentirebbero la costituzione di un albo nazionale dei trascrittori, attualmente assente.

          Appare altresì indispensabile l’adozione a livello nazionale di linee guida per i trascrittori, che dovrebbero costituire la base della formazione professionale dei trascrittori, siano essi periti e consulenti, siano essi appartenenti alla polizia giudiziaria, ma dovrebbero altresì costituire patrimonio conoscitivo di tutti gli operatori nell’ambito giudiziario (avvocati e magistrati). La conoscenza dei fondamenti di linguistica forense, infatti, consentirebbe per esempio all’avvocato di rilevare elementi di inattendibilità di una trascrizione di intercettazione, consentendo in tal modo di valutare adeguatamente, per esempio, se prestare o meno il consenso all’utilizzo da parte del giudice di tale trascrizione per formare il proprio convincimento. La previsione di percorsi formativi in tema di linguistica forense permetterebbe a magistrati e avvocati di verificare le modalità con le quali la prova fonica, oggetto dell’intercettazione, sia stata rappresentata nella trascrizione e se tali modalità risultino adeguate. Solo in tal modo sarà garantito un effettivo controllo di legalità nella formazione della prova secondo il modello del “giusto processo” previsto dall’art. 111 c. 2 Cost.

          Questi temi meritano di essere arati con pazienza e profondità dalla comunità dei penalisti italiani, allo scopo di raggiungere l’istituzione di un albo nazionale dei trascrittori e la formulazione di linee guida.

          Proprio seguendo tale prospettiva la Camera Penale di Roma, già da qualche anno, ha costituito una Commissione sulla linguistica giudiziaria con lo scopo di creare un ponte tra giuristi e linguisti forensi e di avviare così percorsi formativi per gli avvocati sul tema della linguistica forense. Recentemente è stato organizzato un workshop di sei lezioni, nel corso delle quali avvocatura, docenti di linguistica forense e magistratura si sono confrontati proficuamente sul tema delle trascrizioni forensi e sulle garanzie che devono essere accordate affinché la parola pronunciata e intercettata non subisca una pericolosa alterazione nella fase della sua trascrizione.

___________________________

Iacopo Benevieri

Note:

[1] La ricerca è stata pubblicata nel corso dell’evento di formazione, organizzato dalla Camera Penale di Roma, dal titolo “Le trascrizioni forensi: la parola è garantita?”, reperibile all’indirizzo internet https://www.youtube.com/watch?v=gOp2QsCpmtM

 

[2] Già G.A. Miller, Langage et communication, Paris, Presses universitaires de France, III, 1956, evidenziava come ascoltare un messaggio, un discorso implichi necessariamente l’attivazione di funzioni selettive e interpretative.

[3] R. Jakobson-M. Halle, Fundamentals of Language, Netherland, Mouton & Co., 1956, p. 33 ss.

 

[4] Lo stesso termine “mondegreen” deriva infatti dall’errata percezione di alcune parole contenute nel testo di un brano musicale, nel quale le parole «and he laid him on the green» furono percepite e interpretate da Sylvia Wright, giornalista, come «and Lady Mondegreen». Si veda L. Romito, Manuale di linguistica forense. Dalle lezioni del Corso sperimentale in “Perito fonico-trascrittore forense”, Roma, Bulzoni Editore, 2013

[5] Per un’analisi di una trascrizione di intercettazione in dialetto romanesco, ci sia consentito rinviare a F. Orletti – I. Benevieri, La trascrizione forense tra cattive prassi e fallacie pro-batorie. Analisi di una trascrizione di intercettazione ambientale in C. Meluzzi C., S. Cenceschi  (a cura di), La linguistica forense in prospettiva multidisciplinare, Studi AISV, 2023, vol. 10, p. 115.

[6] H. Fraser, Issues in transcription: factor affecting the reliability of transcripts as evidence in legal cases, in Speech Language and Law, 2003.

[7] Lindblom       B.,         Explaning        Phonetic           Variation,         in              Speech Production      and Speech      Modelling,       Kluwer              Academic         Pulishers,         1990,    403-439.

[8] Per una panoramica sul tema, si consenta il rinvio a I. Benevieri, La trascrizione della voce intercettata: questioni di linguistica forense, in Processo penale e giustizia, 2021, n. 4/21.

[9] L. Romito, Il Contesto, la Intellegibilità e il Rapporto Segnale-Rumore, in AISV 2004  – Misura dei parametri, reperibile all’indirizzo https://www.aisv.it/PubblicazioniAISV/I_AISV/prooceedings/pdf/Romito%20L.pdf.

[10] L. Romito, La misura dell’intelligibilità e il rapporto segnale-rumore. Atti del convegno “AISV (Associazione Italiana di Scienze della Voce)”, Padova, 2004, p. 539 ss.; si veda anche D.D. Wheeler, Processes in word recognition, in Cognitive Psychology, n. 1, 1970, p. 59 ss.

[11] H. Savin, Word-frequency effect and errors in the perception of speech, in Journal of the Acoustical Society of America, n. 35, 1963; J. Morton, Interaction of information in word recognition, in Psychological Review, n. 76, 1969, p. 165 ss.

[12] F. Orletti – L. Mariottini, Forensic Comunication in Theory and Practice,  Oxford Press, 2017.

[13]More the transcriber is involved in  the process (as a case of a policeman who has partecipated in investigation) then more her/his expectations will drive her/his           interpretations”, in F. Orletti – L. Mariottini, op. cit., p. 17.

[14] F. Orletti – L. Mariottini, op. cit., p. 18.

[15] A. Mehrabian, Nonverbal Communication, Transaction Publishers, 1972.

[16] C. Bazzanella, Le facce del parlare, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 62

 

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