Relazione al convegno 21/12/2023 organizzato dalla Camera Penale di Pordenone

All’alba di ieri, 20 dicembre 2023, ci siamo svegliati con un barlume di luce nel generale offuscamento sulla presunzione di innocenza, non ostante dal 30 marzo 2021 sia stata recepita dal Parlamento la direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 sul “rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”.

E’ stato infatti approvato dalla Camera dei Deputati un emendamento alla legge di delegazione europea: se passerà al Senato,  non sarà più possibile la pubblicazione del testo delle ordinanze cautelari.

E’ senza dubbio un primo timido passo avanti per arginare la gogna mediatica che ogni cittadino, presunto innocente, è costretto a subire, senza potersi difendere da attacchi mediatici spesso esiziali.

La direzione è quella auspicata dall’Unione delle Camere Penali fin dal 28 settembre 2021 quando, in sede di audizione innanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati l’Unione presentò una specifica proposta di “codice dell’informazione giudiziaria” che conteneva, fra l’altro, proprio il divieto di pubblicazione dell’ordinanza cautelare (potete trovarla pubblicata sulla rivista “Diritto di difesa”: https://dirittodidifesa.eu/direttiva-europea-su-presunzione-di-innocenza-e-schema-di-legge-le-note-dellunione/)

Torniamo, però, ad un’altra realtà (non certo rosea).

Il tema che affrontiamo oggi – accanto a quello della riforma della riforma Cartabia (confesso che ogni volta che sento questo nome cominciano a prudermi le mani) – è senza dubbio centrale nei pensieri di chi ha a cuore il riportare al centro del dibattito politico il giusto processo: il processo mediatico o meglio l’influenza dell’opinione pubblica e mediatica sul processo.

Io sono convinto, infatti, che il circo mediatico-giudiziario abbia una concreta influenza condizionante l’esito dei processi.

Parlare di effetto condizionante l’esito dei processi significa confrontarsi con un meccanismo che altera l’equilibrio del giusto processo, in cui l’unico elemento condizionante la decisione deve essere la prova, non invece fattori esterni.

Le ragioni di tale condizionamento sono fin troppo evidenti: la giustizia  cammina con le gambe degli uomini.

I magistrati, pubblici ministeri e giudici, non sono dei freddi, asettici calcolatori che vivono in una sfera di cristallo e che orientano i loro comportamenti e le loro decisioni senza farsi influenzare dall’opinione pubblica, almeno su alcuni temi caldi come i femminicidi, la criminalità organizzata (la Mafia), i reati commessi dagli stranieri e, ancora, l’inquinamento e il danno ambientale, le morti e le stragi sul lavoro.

Su questi temi è impossibile che i magistrati – che sono uomini e donne in carne e ossa che quando lasciano l’ufficio della Procura o del Tribunale vivono nella società civile come tutti noi – non subiscano l’influenza dell’opinione pubblica, oltre a quella della propria coscienza individuale.

Dunque, il punto di partenza dell’importanza del fenomeno che affrontiamo oggi è la constatazione che la pressione dell’opinione pubblica e la pressione mediatica influenzano l’esito dei processi.

Diversamente, se fosse solo un fatto di costume, sarebbe uno dei tanti malcostumi che attraversano la nostra società, deplorevole ma non tale da diventare centrale per una politica della giustizia che voglia ripristinare il giusto processo.

La nostra stella polare deve essere il giusto processo, cioè la decisione determinata esclusivamente dalle regole del processo, dal contraddittorio nella formazione della prova, e non da fattori esterni.

Tenendo presente – e con questo chiuderei la premessa – che il male estremo da evitare non è il processo lungo, la giustizia che arriva in ritardo (che pure sono un male), il vero e proprio cancro della giustizia è l’errore giudiziario, cioè la condanna dell’innocente, anche di un solo innocente. La condanna dell’innocente è il fallimento dello Stato democratico.

Ed è proprio la condanna dell’innocente a poter essere influenzata dall’opinione pubblica e soprattutto dalla pressione mediatica.

Mi si potrebbe fare un’obiezione su questa premessa: dove sono le prove che i giudici si facciano condizionare dall’opinione pubblica?

E’ capitato recentemente nella mia città che un pubblico ministero abbia chiesto l’assoluzione di un imputato di maltrattamenti, pakistano, nei confronti della propria compagna, perché mancava il requisito dell’abitualità del reato, aggiungendo tuttavia una considerazione sull’aspetto culturale della vicenda (sul fatto, cioè,  che in questo tipo di cultura estremamente patriarcale l’utilizzo della forza verso la donna non è percepito come disvalore).

Ne è nato uno scoop giornalistico, con l’indignazione delle associazioni contro la violenza sulle donne, e in questo caso il Procuratore capo è intervenuto subito con un comunicato stampa per prendere le distanze dal suo sostituto.

Solo qualche giorno dopo si è scoperto che le richieste di questo sostituto Procuratore erano state strumentalizzate, perché, esaminando la memoria ex art.121 c.p.p. che aveva depositato, l’unica ragione giuridica della richiesta della assoluzione era la mancanza del requisito dell’abitualità del delitto di maltrattamenti e non vi era stata affatto una giustificazione della violenza nei confronti delle donne in quanto fenomeno culturale.

Noi ci saremmo aspettati che il Procuratore capo prendesse le difese del suo sostituto, non per campanilismo, ma per tutelare l’autonomia del magistrato rispetto alle influenze esterne, invece, indubbiamente, si è fatto influenzare dall’opinione pubblica (che sul tema della violenza alle donne è sensibilissima) e si è sentito in dovere di ribadire che la lotta contro la violenza nei confronti delle donne è al primo posto nelle attenzioni della Procura.

Questo episodio è solo lo spunto per auspicare che la battaglia culturale contro il tentativo di influenzare l’esito dei processi da parte dell’opinione pubblica diventi terreno comune fra avvocati e magistrati, perché i valori messi in pericolo sono due: oltre al giusto processo, come si è detto, l’indipendenza della magistratura.

In effetti in alcuni casi la magistratura si è fatta sentire, vediamo però in quali situazioni.

Nel caso recentissimo della condanna a 17 anni di reclusione di un gioielliere che aveva subìto una rapina e che per reazione inseguì il ladro che ormai stava fuggendo, uccidendolo a sangue freddo.

Questa sentenza ha stabilito un principio chiarissimo di civiltà giuridica: non esiste la giustizia far west, non si può inseguire un ladro e ucciderlo, perché questa condotta nulla ha a che vedere con la legittima difesa.

Ebbene, all’indomani della sentenza l’opinione pubblica, cavalcata dalla politica, ha avuto una reazione scomposta a difesa dell’imputato, giustificando questo gesto e prendendosela con i giudici che avevano condannato il povero gioielliere a 17 anni di reclusione.

Qui c’è stata una presa di posizione forte sia dell’ANM sia del CSM.

Presa di posizione che è sempre mancata invece nei casi in cui i giudici erano sul banco degli imputati del tribunale del popolo quando avevano osato assolvere un imputato con una decisione impopolare.

Penso di non dovermi dilungare oltre nella dimostrazione che l’opinione pubblica e la pressione mediatica, oltre ad essere un fenomeno sociale, sono anche una forza che agisce all’interno del processo e che ne influenza l’esito. Il giusto processo viene squilibrato da una forza esterna, è inutile negarlo.

 

Ritengo, quindi, sia arrivato il momento non più rinviabile di intervenire con efficacia, non per eliminare il fenomeno “processo mediatico”, perché questo è impossibile in termini di fatto e non sarebbe nemmeno giustificato (visto che esiste il diritto di cronaca, il diritto di controllo dell’opinione pubblica sull’operato della magistratura attraverso la pubblicità del processo), ma per porre un argine contro quelle esasperazioni che sono in grado di condizionare pesantemente l’esito di un processo.

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo: non il processo mediatico, ma l’esasperazione del processo mediatico.

 

Faccio solo qualche esempio tratto dall’ultimo caso mediatico (l’omicidio di Giulia Cecchettin), in cui i campanelli di allarme sono molto evidenti.

 

1) L’indignazione a targhe alterne. A distanza di poche settimane dal ritrovamento del corpo di Giulia, nella stessa giornata si sono verificati altri due femminicidi (una donna indiana di 65 anni e un’altra donna di 42 di cui non è stata specificata nemmeno la nazionalità ma straniera), rispetto ai quali vi è stato il silenzio più assoluto sia dell’opinione pubblica che della politica. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché, se viene ucciso una ragazza di vent’anni, italiana, tutti sono legittimati ad indignarsi (come è giustificato) e se invece viene uccisa una donna indiana di 65 anni non interessa nessuno. Perché?

 

2) Bisogna, poi, registrare un atteggiamento corretto e rispettoso della legge del Procuratore capo di Venezia Dottor Cherchi il quale, di fronte alla pressione mediatica incessante, è intervenuto con parole che dovrebbero essere incorniciate: “Vi chiedo di lasciare che le indagini proseguano, che ci sia un momento di decantazione, dobbiamo garantire, come prevede il codice di procedura penale, i diritti all’indagato, la serenità alle parti e soprattutto l’indagato non si deve sentire condannato prima che i fatti vengono accertati nei modi e nei tempi previsti dalla costituzione; questo è un fatto di civiltà a cui tutti dovremmo riferirci”.

Dichiarazioni non di circostanza, ma alle quali è seguito davvero il silenzio da parte della Procura della Repubblica, che ha interrotto il canale informativo con i giornalisti, provocando una reazione che ci fa però riflettere.

Qualche giorno dopo, sul Corriere della Sera, leggiamo che “la Procura si è chiusa in questi giorni in un silenzio stampa quasi paradossale arrivando non confermare neppure quanto già noto”.

Ecco che il rispetto della legge, il rispetto del segreto investigativo viene rappresentato come silenzio-stampa paradossale.

E’ davvero avvilente dover constatare che i giornalisti sono a tal punto abituati alla violazione del segreto investigativo che, nel momento in cui trovano un singolo magistrato che ne pretende il rispetto, rimangono sbalorditi e interpretano questo fatto come silenzio-stampa, cioè come negazione del diritto di cronaca, negazione del diritto di informazione.

 

3) Ma il livello massimo di esasperazione è stato raggiunto da quella serie di articoli che, in mancanza di novità sul caso (perché la Procura aveva interrotto il canale), dovevano comunque occupare le pagine negli spazi morti fra l’interrogatorio di garanzia e l’autopsia; proprio per impedire quella “decantazione” della notizia che invece il Procuratore aveva giustamente auspicato.

Allora cosa di meglio fare se non passare in rassegna  le circostanze – prima fra tutte la premeditazione –  in grado di garantire la pena all’ergastolo al futuro imputato?

Sembrava quasi che dietro le quinte vi fosse una regia che mettesse in luce le possibili insidie processuali in grado di risparmiare all’imputato l’unica pena giusta che il popolo ha già deciso per questo mostro: l’ergastolo.

Il titolo di uno di questi articoli non ha bisogno di commenti: “l’ergastolo resta la pena più probabile“.

Ma come? Non è ancora stato fatto il processo e il popolo si è già pronunciato? Ergastolo!!! Se non è un pesante condizionamento questo?

Se già pochi giorni dopo il fatto si crea l’aspettativa dell’ergastolo, fra uno o due anni come potranno i giudici, nella camera di consiglio della Corte di Assise, trovare, per esempio, il coraggio di assolvere l’imputato per incapacità di intendere e di volere o anche solo diminuirgli la pena per un vizio parziale di mente?

 

4) Le forme di esasperazione sono davvero le più variegate; c’è anche il processo mediatico come fonte di recidiva. Dopo numerosi giorni di martellamento mediatico su questo caso, in una casa qualunque, in una famiglia qualunque, si assiste ad una scena di ordinaria follia: il marito critica in maniera dissennata la famiglia di Giulia, il padre e la sorella, colpevoli di apparire troppo in televisione; ne nasce un litigio al culmine del quale il marito aggredisce la donna e la colpisce con violenza. Assistiamo ad un effetto domino incredibile: l’esasperazione mediatica come fonte di litigio e di nuova violenza.

 

Riassumendo quanto fin qui detto: siamo giunti ad un punto di non ritorno e occorre intervenire. Come?

Due sono le macro-tematiche che richiedono riflessioni, idee e proposte da parte degli avvocati, sia come singoli che come associazione.

Come avvocati siamo di fronte ad un bivio: come dobbiamo comportarci di fronte ad un caso mediatico e alla pressione dei giornalisti che ci chiedono delle dichiarazioni?

E’ una responsabilità non da poco visto che in molti casi il nostro assistito è detenuto e non può, quindi, parlare direttamente con i giornalisti, i quali, perciò, ci chiedono  di parlare non tanto per noi stessi ma di essere il portavoce del nostro assistito.

Quale scelta è la più opportuna nell’interesse della persona e della salvaguardia della prova, della imparzialità del futuro giudice … in altre parole … del giusto processo? Rimanere muti di fronte ai microfoni o iniziare a far sentire anche un’altra campana?

Qui dobbiamo prendere atto di alcune realtà evidenti.

Innanzitutto, se anche l’avvocato decide di non parlare, il processo mediatico non rallenta la sua deriva colpevolista e infierirà ancora di più contro l’immagine dell’indagato: il rimanere in silenzio è un fatto “processualmente” neutro, ma certamente non lo è per l’idea che può farsi l’opinione pubblica dell’arrestato.

Poi, l’opinione pubblica è schierata apertamente contro l’indagato che, solo in quanto arrestato, viene ritenuto colpevole e normalmente di fatti così gravi da suscitare indignazione (pensiamo per esempio alla pedofilia); quindi l’indagato, senza ancora essersi mostrato, offre un’immagine di sé che coincide con quella del mostro; una situazione che, qualunque sia l’atteggiamento che possa avere l’avvocato di fronte ai microfoni, non è ribaltabile in assoluto.

Ma qui la domanda diventa un’altra: si può recuperare un po’ di terreno sotto l’aspetto dell’empatia, della manifestazione del dolore per quello che è capitato, anche all’interno di una prospettiva in cui un soggetto si dichiara innocente? Il corpo della vittima, in fondo, è lì, è ancora caldo e reclama compassione.

Se l’imputato in carcere soffre perché si proclama innocente ma soffre anche per il dolore che questa vicenda sta provocando a due famiglie (quella della vittima e quella dello stesso indagato), è giusto, è opportuno, trasmette una dimensione di un’umanità il fatto di manifestarlo all’esterno?

Sono tutte domande, alle quali, probabilmente, non c’è una risposta univoca, ma variabile da caso a caso.

Di univoco c’è invece l’esigenza di avere una preparazione e una formazione sia tecnica che deontologica “nuova” in materia di comunicazione; una formazione che, forse, l’avvocato “classico” non ha.

Per poter decidere se e come interagire con la stampa nel singolo caso o ci si affida ad un professionista della comunicazione (come avviene per esempio negli Stati Uniti) o bisogna formarsi un proprio bagaglio di conoscenze che ci consentano di fare la scelta giusta.

Personalmente, ho visto imputati, anche accusati di gravi reati, in grado di trasmettere empatia ed umanità; e l’empatia e l’umanità possono essere quelle chiavi che permettono di aprire la porta non necessariamente dell’assoluzione o della giustificazione del fatto di reato, ma la porta della comprensione, della spiegazione, di una verità a 360°, perché, se c’è una cosa che ho imparato in questi ormai 23 anni di professione, è che nelle vicende umane che assumono una dimensione di penale rilevanza, non esiste mai né completamente nero né  completamente bianco, esistono le sfumature di colore; certo una vicenda può tendere al nero, o allo scuro ovvero può tendere al bianco o al grigio; ma non ci sarà mai una vicenda completamente nera o completamente bianca.

Come associazione, posso riferire delle idee che si sono formate all’interno dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali del quale ho avuto la fortuna di fare parte negli ultimi anni.

Abbiamo pensato ad un codice (non solo deontologico ma di legge) dell’informazione giudiziaria, con regole il più possibile determinate, precise e dettagliate; con le relative sanzioni (di natura amministrativa pecuniaria).

Di natura amministrativa per due ragioni: 1) la nostra contrarietà ideologica al ricorso alla sanzione penale e in particolare alla sanzione detentiva per i reati di opinione; 2) la maggior efficacia dal punto di vista della prevenzione di una sanzione di natura economica a carico dei giornali perché noi sappiamo che dietro i giornali (almeno quelli più importanti) ci sono dei gruppi economici.

Il prof. Amodio ha parlato in tempi non sospetti di “misure appropriate a ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere di esercitare una penetrante attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza”. Discorso attualissimo!!!

So che è ambizioso ma dovremmo riuscire ad ottenere un risultato: che la presentazione della notizia e quindi la cronaca giudiziaria debbano realizzarsi articolando le parole e i concetti in quella bellissima lingua che è l’italiano, in modo tale che chi legge sia portato a pensare che i fatti come vengono descritti sono solo una ipotesi di chi accusa, rispetto alla quale la persona accusata deve ancora fornire la sua versione e solo il contraddittorio fra le due versioni porterà ad una verità giudiziaria all’esito del processo. E che, nel frattempo, l’imputato non è solo presunto innocente, ma è considerato innocente.

Essere “considerato innocente” è ancora più forte di “essere presunto innocente” perché significa che la presunzione di innocenza è entrata a far parte della cultura comune, il che accadrà fra molto tempo – temo – ma questo dipenderà anche dal nostro impegno.

Contro di noi abbiamo tutti, o quasi, ma dalla nostra parte abbiamo qualcosa che loro non hanno: la Costituzione, lì sono custoditi gli ideali a cui tendere, occorre solo portarli fuori, diffonderli nella società, soprattutto fra i giovani e non è un caso che il diritto e l’educazione civica nelle scuole superiori abbiano al centro del progetto la Costituzione e che lo stesso progetto MIUR-UCPI (che ci vede impegnati nelle scuole in mezzo ai ragazzi) offra uno spaccato, spesso drammatico, del confronto fra i principi dei nostri padri costituenti e le prassi distorte.

Moltissime sono le sfide aperte: il diritto di difesa, dove non deve più accadere che un avvocato sia costretto a giustificarsi con l’opinione pubblica per il modo in cui ha contro-esaminato un teste d’accusa; la presunzione di innocenza, dove non deve più accadere che una persona assolta continui a trovare su internet, in evidenza, la notizia del suo arresto; la finalità rieducativa della pena, sulla quale tutti concordano a parole, ma che si scontra contro il muro della mancanza di risorse (perché, in realtà, a nessuno importa di questa porzione scomoda, fastidiosa e perdente della nostra società).

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di Michele Bontempi – Penalista Foro di Brescia

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