di Sandro Furfaro

  1. Con la decisione n. 3513 del 2021[1], le Sezioni Unite della Corte di legittimità, risolvendo un conflitto sul rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca emesso in ipotesi di pericolosità generica ex art. 1, co. 1 lett. a, d.lgs. n. 159 del 2011, venuta meno a seguito della decisione della Corte costituzionale n. 24 del 2019, hanno offerto una interpretazione dell’art. 28, co. 2 del d.lgs. cit. che sembra aprire prospettive interessanti per la compiuta realizzazione della tutela offerta dall’istituto revocatorio della confisca di prevenzione.

La disposizione di cui al detto co. 2 così recita “In ogni caso, la revocazione può essere richiesta solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura” e la decisione in esame ha ritenuto che essa costituisca una ipotesi autonoma di revocazione che appare idonea a far rivalutare la decisione definitiva di prevenzione, correlata sia all’emersione di nuovi elementi di fatto, sia ad eventi di altra natura che devono trovare la sede naturale di verifica giurisdizionale nel procedimento revocatorio, laddove venga in rilievo la riconsiderazione della sussistenza originaria della pericolosità sociale alla base della confisca.

L’intervento delle Sezioni Unite, pur richiesto per la composizione dei contrasti sull’individuazione dell’istituto esperibile – revocazione o incidente di esecuzione – in ipotesi di intervento del Giudice delle leggi efficiente a far venir meno ab origine il presupposto della pericolosità sociale alla base del provvedimento ablatorio[2], di fatto sembra avere la sua massima incidenza sulla portata della disposizione di cui al o. 2 dell’art. 28, tanto da potersi dire che l’individuazione dell’istituto esperibile nell’ipotesi detta è stata davvero l’occasione per un intervento nomofilattico che, al fondo, ha risolto un problema molto più imporante: quello costituito dall’individuazione nella economia della norma di cui all’art. 28 della disposizione del co. 2, potendo apparire, essa, del tutto inutile rispetto alla tipizzazione dei casi di revocazione prevista al co. 1.

Quanto ciò sia vero – e, quindi, che la decisione importante offerta dalla Sezioni Unite sia costituita proprio dalla portata del co. 2 – risulta evidente da un dato certo: quello costituito dalla scarsa incidenza dell’individuazione dell’istituto azionabile a seguito di declaratoria di incostituzionalità sui diritti sottostanti. In tal caso, infatti, le connotazioni della verifica richiesta – corrispondente in sostanza ad una mera presa d’atto dell’intervento novativo in melius – ben potevano essere definite, così come accade nel sistema penale, con la revoca della confisca a seguito dell’intervento correttivo del giudice cui compete la cura l’esecuzione, senza che nulla andasse perduto in termini di tutela delle posizioni soggetive sottostanti[3].

Come messo in chiaro dalle Sezioni Unite, è la ricostruzione del rapporto tra il primo e il secondo comma della norma or detta ad assumere particolare rilievo con riflessi che vanno ben al di là della risoluzione della specifica questione in contrasto.

Per questa ragione l’attenzione profusa per definire i termini dell’or detto rapporto è risultata particolarmente significativa ed è stata affrontata prendendo atto, innanzi tutto, delle divergenti prospettive emerse in dottrina e giurisprudenza in ordine a tale rapporto.

Secondo una prima impostazione, infatti, la portata normativa del co. 2 dell’art. 28 è limitata a impedire che la richiesta di revocazione si risolva in mero esercizio dialettico su un novum che, valutato insieme con gli elementi già considerati ai fini dell’adozione della confisca, non risulti comunque idoneo a dimostrare il difetto originario dei presupposti del provvedimento. Così interpretata, la disposizione in esame risultava evidentemente inutiliter data, posto che nulla aggiungeva a ciò che già chiaramente poteva (e può) cogliersi dalla disciplina dei casi di revocazione individuati nel primo comma[4].

Secondo una diversa impostazione, invece, la disposizione di cui al co. 2 sostanzialmente amplia le ipotesi di revocazione a tutti i casi in cui, pur a prescindere dalla specifica integrazione delle cause di revocazione di cui al co. 1, sia dimostrabile, per fatti sopravvenuti alla defibitività, la carenza originaria dei presupposti della confisca di prevenzione[5].

Le Sezioni Unite hanno aderito a tale ultima impostazione e hanno riconosciuto all’ipotesi delineata al co. 2 dell’art. 28 una autonomia funzionale e, conseguentemente, operativa, “fermo restando … l’irrilevanza, ai fini dell’idoneità a legittimare il ricorso alla revocazione, di fattispecie non espressive di un difetto originario di tali presupposti, quali, ad esempio, il sopravvenire di una legge abrogatrice della disposizione relativa a una figura soggettiva di pericolosità”.

 

  1. Evidente che, così interpretato, l’art. 28, co. 2 del d.lgs. n. 159 del 2011 dovesse includere nel proprio ambito applicativo le ipotesi di declaratoria di illegittimità costituzionale che investono in toto una delle figure di pericolosità sociale giustificatrici della confisca, in quanto siffatto accadimento integra appieno quel difetto originario dei presupposti per l’applicazione del provvedimento ablatorio che costituisce condizione applicativa della revocazione[6].

Ciò vero, però, non pare che l’ambito operativo della riconosciuta autonomia della disposizione in esame non possa ricomprendere altro. Se, infatti, tutte le esigenze di rivalutazione di una decisione definitiva di prevenzione, correlate sia all’emersione di nuovi elementi di fatto, sia ad eventi incidenti sulla validità dell’originario presupposto devono trovare sede naturale di verifica giurisdizionale nei procedimenti revocatori disciplinati, a seconda dei casi, dall’art. 11 (nell’ipotesi di misura esclusivamente personale) e dall’art. 28 (lì dove venga in rilievo, anche in rapporto alla valutazione di pericolosità soggettiva operata in sede di cognizione, la revocazione della confisca), pare evidente che la riconosciuta autonomia della disposizione di cui al detto co. 2 possa coinvolgere altro.

In proposito, anzi, va detto che non sembra affatto vero che essa abbia ampliato la tipizzazione dei casi di cui al co. 1 (mutuata dalla disciplina della revisione penale), avendo affermato, invece, che il complesso della norma di cui all’art. 28 contenga una ipotesi revocatoria a sé stante che integra una vera e propria fattispecie revocatoria definibile aperta o, se più piace, indefinita (e, quindi, oltre ogni tipizzazione), mercè la quale è possibile apprezzare tutte quelle sopravvenienze alla definitività della confisca che, pur costituendo elementi rilevanti al fine di escludere la sussistenza originaria dei presupporti per il giudizio di sussistenza della pericolosità sociale, non si pongono in alcuna della relazioni qualificate considerate dal co. 1 dell’art. 28.

Questa, più che una tesi sostenibile, pare essere una conclusione da tener presente, sia sul piano ricostruttivo della disposizione in esame e, quindi, alla luce di essa, dell’istituto revocatorio in generale; sia, consequentemente, sul piano operativo al fine di individuare le ipotesi di fattibilità e i limiti entro i quali entro i quali comunque essa è costretta.

 

  1. Muovendo dal piano ricostruttivo della disposizione, in estrema sintesi, va detto che la fattispecie revocatoria aperta individuata nel co. 2 consta di due requisiti intimamente connessi:

a) intanto, della sopravvenienza rispetto alla definitività del provvedimento di confisca[7] di una novità, che pare poter essere di qualsiasi genere pur se ovviamente diversa da taluna delle evenienze considerate al co. 1;

b) quindi, di un difetto originario dei presupposti della confisca che, secondo i criteri proprie del giudizio di prevenzione e con l’ovvia esclusione delle patologie afferenti all’iter procedimenrtale che ha condotto all’adozione del provvedimento ablatorio, deve discendere da quella novità.

Si versa, in sostanza, in quella classica situazione, nella quale, in assenza di puntuali indicazioni testuali (nel caso l’unico dato è costituito dalgli incisi “in ogni caso …” e “solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti …” dei quali s’è detto) l’ermeneusi ricostruttiva della disposizione non può che attingere, per un verso, alle finalità dell’istituto revocatorio e, per altro verso, alle conclusioni cui la stessa ermeneusi è pervenuta considerando indicazioni letterali più puntuali relative ad altre statuizioni considerate dal medesimo istituto.

Le ricadute di tale ricostruzione dell’ipotesi revocatoria sul piano ricostruttivo dell’intero istituto della revocazione paiono evidenti (e di tuto rilievo), solo a riflettere che la fattispecie aperta di cui al co. 2 dell’art. 28, scardinando più che ampliando, quella tassatività dei casi che definiva il limite oggettivo di agire, riconduce la dimensione ontologica della revocazione a quella revoca ex tunc che, individuata dalla prassi prima del d.lgs. n. 159 del 2011[8], comportava, ove accolta, il riconoscimento ora per allora dell’inesistenza originaria dei presupposti della misura di prevenzione patrimoniale.

Le cause della revocazione, infatti, non essendo più limitate a quelle predefinite dal co. 1, possono essere diverse, con gli unici limiti costituiti, come si è visto, dalla sopravvenienza della novità e della derivazione, da essa, del difetto originario della confisca,

4. Sul piano operativo, pare doversi dire che se la disposizione di cui al co. 2 dell’art. 28 cit. delinea una fattispecie aperta di revocazione cui ricondurre ipotesi diverse da quelle delineate dal co. 1 che siano comunque dimostrative della carenza originaria dei presupposti necessari per la confisca, evidentemente essa include nel proprio ambito applicativo situazioni che, così come avviene per i casi in cui è azionabile l’incidente di esecuzione, non è possibile iptizzare una tantum.

Tra queste – e se ne dice a mo’ d’esempio –, pare potersi fondatamente sostenere che indubbiamente rientri la situazione caratterizzata dall’intervento di alcune decisioni giudiziali e, in particolar modo, a quelle decisioni che, intervenute per escludere il fatto o la responsabilità del soggetto già ritenuti rilevanti ai fini del giudizio di pericolosità sociale, non risultano rientrare nella previsione di cui all’art. 28, co. 1, lett. “b”, ma che, appunto per risultare, con giudizio ex ante, rilevanti rispetto alla sussistenza della pericolosità sociale, sembra proprio che possano assumere rilievo ai sensi della disposizione di cui al co. 2 del detto articolo.

Alcune precisazioni vanno fatte sul punto. L’art. 28, co. 1, lett. “b”, cit., infatti, prevede possibile la revocazione “quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca[9], e l’espresso richiamo operato dalla disposizione alle sentenze penali definitive (irrevocabili, cioè) immediatamente esclude dall’ambito delle decisioni rilevanti tutti quei provvedimenti penali che, pur terminativi, allo stato, del procedere, non sono appunto sentenze penali definitive (quali, esemplarmente, il decreto e l’ordinanza di archiviazione, le sentenze di non luogo a procedere).

Si verifica, in tali situazioni, una situazione definibile per certi versi ambigua, in quanto mentre il contenuto di un provvedimento cautelare e di quello che chiude, allo stato, un’indagine o un processo penale nel senso della possibile sussistenza del fatto o della responsabilità del soggetto può assumere rilievo ai fini dell’applicazione della misura di prevenzione (con a seguito la confisca, per quanto qui interessa), al contrario, il contenuto del proccedimento che, allo stato, esclude la sussistenza del fatto e/o la responsabilità del soggetto non legittima l’azione del rimedio revocatorio.

In entrambi tali casi, è l’autonomia del giudizio di prevenzione rispetto al giudizio penale ad entrare in discussione. E ciò, perché l’autonomia del giudizio si riferisce all’esistenza (prima ancora che alla rilevanza) di quei fatti che, oggetto di atti amministrativi o di provvedimenti giurisdizionali, costituiscono la base del giudizio di prevensione.

Ma se il giudizio revocatorio altro non è che un giudizio di cognizione, pare evidente che l’oggetto del giudizio di esso non può cadere sui fatti oggetto comunque da un provvedimento giurisdizionale, sicché se può dirsi certamente che l’autonomia tra processo penale e processo di prevenzione naturalmente sopporta “una sorta di osmosi probatoria”, parimenti deve dirsi che, rispetto alla autonomia dei rispoettivi giudizi, al cospetto di atti che non abbiano di per sé natura probatoria ma che costituiscono provvedimenti decisori pur senza il crisma della definitività (si pensi, appunto, alle sentenze di proscioglimento e ai provvedimenti di archiviazione), non è la qualità dell’atto ad assumere rilevanza ma il contenuto di esso in relazione al fatto sottostante.

Ciò vero, pare pacifico che, al di là del dato formale che qualifica una decisione rispetto ad altra decisione (e, quindi, una sentenza definitiva rispetto ad una sentenza di proscioglimento o ad un provvedimento di archiviazione), se il fatto oggetto già oggetto di inagine o di proccedimento cautelare è smentito da un provvedimento di archiviazione che, alla luce delle indagini, esclude la sussistenza del fatto o la responsabilità del soggetto, non pare proprio che la qualità (non definitiva) del provvedimento possa impedire la revocazione, in quanto, appunto, novità sopravvenuta il provvedimento che, chiudendo allo stato il procedimento penale, individua le ragioni di fatto che ne escludono la rilevanza penale o la responsabilità e, quindi, pongono in discussione la sussistenza del presupposto della confisca costituto dalla sussistenza della pericolosità sociale del soggetto.

Così come avviene per la considerazione del contenuto delle ordinanze cautelari o delle sentenze di condanna non irrevocabili, pure in tal caso, come si diceva, è l’autonomia del giudizio di prevenzione sul fatto ad entrare in discussione, e, con essa, quel principio di non contraddizione che sorregge l’intero ordinamento e che si esprime nell’adagio, secondo cui “è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”.

 NOTE:

[1] Ci si riferisce, ovviamente, a Cas., Sez. Un., 16.12.2021, Fiorentino, in Mass. Uff., 282474-01, sulla quale, oltre alle “Relazioni collegate” allegate alla massima, si vedano Albanese, Gli effetti sella sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019 sui provvedimenti definitivi: le Sezioni unite ammettono la revocazione delle confische disposte per la fattispecie di pericolosità ‘generica’ dichiarata costituzionalmente illegittima e ne individuano il fondamento nell’art. 28, co, 2, d.lgs. 159/2011, in Sistema Penale on line, 7.2.2022; De Marzo, Le Sezioni Unite sulla revoca della confisca di prevenzione: Brevi spunti di legalità processuale, in Foto It., 2022, 6, 396;  Mazza, Il “paradigma della prevenzione” e i presupposti incostituzionali della confisca: quale strumento processuale?, in Dir. Pen. Proc., 2022, 5, 615; Barbagallo, Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza della C. Cost. n. 24 del 2019, in Cass. Pen., 2022, 1346.

[2] Gli indirizzi in contrasto sul tema sono bene individuati nelle diverse sfaccetature nella sentenza delle Sezioni Unite alla quale ovviamente si rimanda, sottolineando, ma soltanto esemplarmente, come a Cass., Sez. VI, 28.10.2020, Iannuzzi, in Mass. Uff., 280183, che, in considerzione dell’iniquità del rispetto del termine di sei mesi previsto dall’art. 28, co. 3, per promuovere l’azione di revocazione, propendeva per l’incidente di esecusione, si opponeva Cass. pen., Sez. I, 1.4.2019, Immobiliare s.r.l., ivi, 275888, sul presupposto che, nel caso, si versa comunque in una domanda qualificabile come richiesta di revoca della misura, disciplinata, anche con riferimento alla competenza, dagli artt. 11 e 28, d.lgs. n. 159, seguita da Cass. pen., Sez. I., 22.4.2021, Ascone, ivi, 281367, che, facendo leva sull’oggetto della domanda, ha ritenuto, azionabile nel caso la revocazione, escludendo però la decadenza di sui al cit. co. 3.

[3] Questa conclusione per certi versi appariva sostenuta da quella consolidata giurisprudenza che, intervenendo in relazione alle conseguenze prodotte dalle decisioni della Corte costituzionale sull’esecuzione di una decisione penale rivelatasi successivamente illegittima, ha riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere-dovere di incidere sul giudicato siffatto potere-dovere connaturato alla funzione giurisdizionale propria del giudice dell’esecuzione (si vedano, in tal senso, Cass., Sez. Un. 20.12.2005, Catanzaro, in Mass. Uff., 232610; Cass., Sez. Un., 24.10.2013, Ercolano, ivi, 252933; Cass., Sez. Un., 29.5.2014, Gatto, ivi, 260700), il quale, però, nel sistema penale non si confronta con un istituto ad hoc, quale quello della revocazione della confisca previsto, appunto, dall’art. 28.

[4] Su tale impostazione sia consentito richiamare Furfaro, Diritto processuale di prevenzione, Torino, 2022, 494, che, propendendo verso la generale assimilazione dell’istituto revocatorio alla revisione penale – soprattutto in relazione al concetto di novum rilevante (pagg. 489-493; 496 ss.) – ne ha sostenuto la validità sul presupposto della analogia funzionale con la disposizione di cui all’art. 631, c.p.p. In giurisprudenza, si vedano Cass., Sez. VI, 28.10.2020, Iannuzzi, cit.; Cass., Sez. I, 6.7.2020, Marzo, in Mass. Uff., 279384; Cass., Sez. VI, 29.7.2021, Carnovale, ivi, 281751).

[5] Su tale impostazione si veda, particolarmente, Cass., Sez. II, 13.10.2020, Sabatelli, in Mass. Uff., 279970, che, in estrema sintesi, ha considerato rilevanti, tanto il tenore letterale della disposizione, che nel suo incipit (“In ogni caso …”) individua quale condizione legittimante della revocazione ipotesi diverse da quelle delineate dal co. 1, purché riconducibili al medesimo tipo (ossia a fattispecie dimostrative della carenza originaria dei presupposti della confisca), quanto, sul piano sistematico, l’attribuzione ad essa di un significato normativo di cui altrimenti sarebbe priva, del tutto in linea con i canoni della c.d. interpretazione utile ove necessario l’intervento.

[6] La connotazione della declaratoria di illegittimità costituzionale, infatti, attesta l’invalidità originaria della norma dichiarata incostituzionale, in quanto “colpisce la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall’ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici” (Corte cost., sent. n. 127 del 1966; Corte cost., sent. n. 56 del 1967).

[7] In tal caso, la sopravvenienza, diversamente a quanto avviene per la prova nuova considerata dal co. 1,  deve essere effettiva, nel senso che il novum deve effettivamente essere costituito da un quid intervenuto temporalmente dopo la definitività della decisione do confisca.

[8] Si veda Cass., Sez, Un., 19.12.2006, Auddino, in Mass. Uff., 234955.

[9] La situazione considerata non sembra essenzialmente diversa da quella prevista dall’art. 630, co. 1, lett. “a” c.p.p., secondo cui la revisione può essere richiesta “se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale”.

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Prof. Avv. Sandro Furfaro

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