L’adattamento alla realtà deve avvenire in sintonia con la logica di fondo dell’istituto, ovvero quella di privilegiare e tutelare l’aggredito a scapito dell’aggressore. [pubblicato su IL RIFORMISTA (9 dicembre 2023)]

Il legislatore, nel disciplinare la legitti ma difesa, ha volutamente impiegato una terminologia elastica al fine di lasciare alla discrezionalità del giudice il suo adattamento alle infinite sfumature della realtà della vita. Tale adattamento deve avvenire in sintonia con la logica di fondo dell’istituto, che è quella di privilegiare e tutelare l’aggredito a scapito dell’aggressore. Espressioni quali necessità e proporzionalità della difesa, pericolo attuale, se lette secondo il vero scopo della norma, desumibile dalla circostanza che la reazione è considerata legittima anche se provocata dal grave turbamento determinato dalla situazione di pericolo reale o solo fondatamente immaginata, devono condurre il giudice a valutare i fatti mettendosi dalla parte dell’aggredito. Il giudice deve osservare gli accadimenti ponendosi nella prospettiva psicologica ed emotiva della vittima dell’altrui violenza. Il giudicante deve fare ricorso a tutta la sua sensibilità e capacità introspettiva per sentire scorrere nelle vene la stessa adrenalina che ha obnubilato le capacità cognitive di chi patisce un’aggressione alla sua persona, ai suoi cari e alle fonti del suo sostenta- mento. Le corde dell’anima del giudice devono vibrare all’unisono con quelle del soggetto che si è difeso. Questo pretende una legge ormai chiarissima sul punto. Non rispetta la cosiddetta ratio della norma, il giudice il quale valuti i fatti col bilancino del chimico, limitan dosi a svolgere una fredda operazione di laboratorio, senza sforzarsi di condi videre quella tempesta emotiva che solo il confronto attento con lo sguardo straniato della vittima è in grado di restitu ire, al di là di parole e fermi immagine. La voce dell’imputato assume un ruolo fondamentale nella valutazione delle prove. La descrizione dei suoi stati in- terni mentre si succedevano incessanti e veloci gli eventi, il timbro angosciato, ansiato e intenso del suo eloquio, gli oc- chi sbarrati, lucidi e ancora colmi di ter rore, devono costituire la bussola attra verso cui il giudice è tenuto a esplorare e decifrare il significato dei frammenti di realtà affiorati nel processo. La recente condanna a 17 anni e al risarcimento di 400mila euro del gioielliere che ha rea- gito uccidendo due dei suoi aggressori, dunque, non convince. Pur rispettando, ovviamente, la decisione assunta in primo grado e nella doverosa attesa delle sue motivazioni, ci sembra che il video con cui sono stati ricostruiti i fatti sia stato analizzato in ossequio ad un ap proccio asettico, svincolato dalla percezione di chi era stato sorpreso e rapinato all’interno del suo negozio, di chi aveva assistito e subito impotente violenze e minacce a lui e alla sua famiglia, di chi si era visto sottrarre i frutti delle proprie fatiche con ì quale, peraltro, stava ten tando di rimettersi in sesto dopo il lockdown. Scomporre a tavolino la vorticosa evo luzione di avvenimenti unitari sul piano psicologico, attraverso frames ricavati da filmati afoni e incapaci di empatia, è operazione che sembra contrastare con lo spirito della legittima difesa, tutto improntato alla massima salvaguardia del- la persona dell’aggredito e alla comprensione del suo turbamento. Il gioielliere, perlomeno in tv, ha offerta una spiega- zione lineare dei comportamenti serba- ti, alla luce del suo particolare angolo visuale di quel drammatico frangente di vita: non sapeva se la moglie fosse nelle mani dei rapinatori quando gli stessi sono usciti dal locale e hanno tentato di fuggire in macchina, non sapeva se chi gli aveva puntato la pistola contro dete nesse un’arma giocattolo, non ha colpito chi era già in terra a modi esecuzione.

Tutte parole e sensazioni che dovevano costituire il vademecum sulla base del quale guardare il video. In questo modo, come in un rapporto di reciproca e vir tuosa circolarità, si doveva accertare l’at tendibilità del   gioielliere   saggiandone la coerenza logica ed emotiva con le immagini e, viceversa, leggere quelle immagini verificando se il loro contenuto fosse compatibile con quella narrazione. Quello che lascia viepiù perplessi è poi la previsione di un risarcimento così elevato, piuttosto inconsueto nelle aule di tribunale, che, francamente, appare dif ficilmente metabolizzabile anche da una collettività alla quale risulta complicato spiegare che bisogna dare 400mila euro a chi ti aveva usato violenza, minaccia, rapinato e, nella tua percezione, anche, forse, sequestrato la compagna di vita. E una giustizia che si distanzia troppo dal senso comune, che sfugge completamente alla comprensione dei più, finisce per essere ritenuta nemica e ingiusta. Infine, una notazione di contesto. Queste reazioni derivano dalla sensazione d’impunità (certamente alterata e non giusti- ficata dai contenuti tassi di criminalità nel nostro paese) che spesso i cittadini avvertono in relazione a determinate categorie di reati e dalla sentita assenza   della capacità o possibilità dello stato di apprestare efficaci strumenti di tutela preventiva. La cd giustizia di prossimità, quelle cioè che si dovrebbe concentrare sulla prevenzione e repressione degli il- leciti forieri di autentici danni, materiali e morali, ai singoli, è trascurata perché ritenuta di serie B. Svolgere indagini sui furti in abitazione, sui furti d’auto, sugli scippi, sulle piccole truffe, sulle rapine nei negozi o per strada, su chi affitta una casa con la fraudolenta intenzione di non pagare il canone, su chi viene malmena- to al semaforo o in un locale, è attività’ impegnativa, che spesso non consente al magistrato di salire agli onori delle cro nache, come la lotta a fenomeni impal pabili e astratti ma più remunerativi in termini di visibilità. Tuttavia, come ha giustamente notato il Ministro Nordio, il cittadino non dorme sonni più tranquilli se sa che la spada pende sulla testa dei colletti bianchi (come, beninteso, deve essere se necessario), ma perde invece il sonno se gli sottraggono l’auto, se gli en trano in casa, se gli rubano la pensione con cui tira avanti, la merce da vendere, la casa non ricevendo l’affitto, se finisce in ospedale col setto nasale rotto a botte, ecc. Soprattutto i soggetti più fragili, che non possono acquistare una nuova auto, che non riescono ad arrivare a fine mese, che senza quell’affitto non possono man- tenersi, che non possono permettersi costose cure ricostruttive, devono essere protetti dalla giustizia di prossimità. Certo, se gli sfratti venissero disposti ed eseguiti in tempi lampo, se chi ruba in un appartamento, chi ti rifila un pacco o ti mena, venisse adeguatamente perse guito, il turbamento di chi reagisce an che in preda alla frustrazione potrebbe essere valutato con maggiore rigore, ma al momento così non è. L’Italia è un pa ese sicuro, in cui i reati sono in calo, ma ciò non significa che non occorra attivar- si meglio per prevenire e reprimere fatti davvero dannosi per la sfera individuale, evitando la sensazione della necessità di una giustizia fai da te. Non condivido, quindi, tutte le critiche indirizzate anche dall’avvocatura al recente ddl sicurezza proposto dal Governo, poiché contiene previsioni che incentivano la giustizia di prossimità (pensiamo alle misure contro chi occupa case non pagando l’affitto e gettando nella rovina i proprietari), ov vero la giustizia davvero utile alla società e ai deboli (i ricchi si tutelano da soli), anche se lontana dai riflettori.

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NICOLA MADIA (Penalista Foro di Roma e docente di diritto penale  UNIVERSITA’ TOR VERGATA)

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