di Jacopo Benevieri 

Il corposo [o m i s s i s] di Alessandro Barbano e il denso [o m i s s i s] dell’avv. Giuseppe Milicia devono essere consegnati [o m i s s i s].

L’incipit di questo breve intervento è, certamente, enigmatico, incoerente, criptico. A tali oscurità siamo tuttavia avvezzi per aver letto molte trascrizioni di intercettazioni effettuate dalla polizia giudiziaria. Addirittura l’omissione, da “prassi abusiva” del diritto, per usare una felice espressione di Giuseppe Frigo, diventa legge dello Stato con il secondo comma dell’art. 268 c.p.p., nella recente riformulazione. L’omissione legalizzata.

Torniamo all’incipit. L’oscurità del periodo non ci impedisce di captarne il senso. Seppur sommariamente s’intuisce che qui si sta trattando della consegna di qualcosa di corposo e di denso a qualcun’altro. D’altronde il nostro cervello non si ferma qui. La mente ci spinge a cercare un senso nella connessione tra elementi di un insieme, in questo caso tra parole così amputate. Ed è una tendenza tutta umana quella di creare a tutti i costi una interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro.

Si chiama apofènia, è il fenomeno che ci fa vedere un volto sulla superficie della Luna, una bocca spalancata nella stramba corteccia di un albero, oppure un senso in un periodo linguisticamente martoriato come il nostro incipit. Abbiamo bisogno continuamente che il mondo intorno a noi significhi qualcosa e lo troviamo.

Ci convinciamo dunque come questo incipit abbia necessariamente un significato compiuto e che, dunque, qualcosa di corposo e di denso deve essere consegnato e che potrebbe, per giunta, esser non proprio lecito. Culturalmente nella comunicazione occidentale l’omissione è un elemento semiotico della censura protettiva, dell’indice inquisitoriale, che sottrae per non turbarci. Ecco perché l’omissis ci induce a pensar male, sempre.

Lo scriveva sul finire del 1600 anche Peter Schultz nella sua “Disputatio Iuridica De Omissis In Sententia“, laddove raccomandava quanto sia difficile dall’omissis dedurre sufficientemente un significato certo (“difficile est satis certam significationem ex omissione deducere“).

D’altronde quell’omissis ha sottratto dei segmenti del periodo, permettendo interpretazioni e inferenze sulla struttura del tutto a partire dalle rovine di ciò che ne rimane. Se restituissimo le parole a quegli spazi bianchi occupati dagli omissis, leggeremmo che “il corposo articolo di Alessandro Barbano e il denso intervento dell’avv. Giuseppe Milicia devono essere consegnati alle studentesse e agli studenti di tutte le Università“.

L’alone di mistero e di oscurità si dirada, sfuma il vago sospetto d’illiceità della consegna.

Dunque, ripartiamo: il corposo e magistrale articolo di Alessandro Barbano pubblicato su “Il Foglio” del 14 Gennaio 2024 e il denso e prezioso intervento dell’avv. Giuseppe Milicia su questi spazi devono essere consegnati alle studentesse e agli studenti di tutte le Università perché toccano magistralmente i temi delle garanzie difensive. Inoltre, a modo di vedere di chi scrive, coinvolgono anche la specifica questione, ignorata da troppo tempo, delle garanzie delle trascrizioni delle intercettazioni.

Nel nostro Paese la scarsa attenzione dedicata alla fase della trascrizione del materiale fonico intercettato è giustificata dal convincimento che si tratta di un’attività facile, per la quale non sono richieste specifiche competenze e controlli. Tale convincimento, com’è noto, risulta confortato dal costante orientamento della Corte di legittimità secondo cui l’attività trascrittiva non ha carattere valutativo bensì descrittivo, è solo un mezzo di consultazione e rappresentazione delle parole intercettate, in quanto la prova risiede unicamente nel dato fonico (tra le molte, Cass., sez. V, 17 febbraio 2020, n. 12737).

Tuttavia una delle più attente linguiste forensi, Mary Bucholtz, ha sottolineato che “poiché la trascrizione è un atto di interpretazione e di rappresentazione, è anche un atto di potere” e l’omissione, l’interpretazione sono espressioni tipiche del potere.

Ecco dunque il tema illuminato dai pregevoli scritti che abbiamo menzionato: non tanto e non solo l’intercettazione è uno strumento straordinariamente potente di indagine che coinvolge delicatissimi equilibri tra garanzie, ma soprattutto la trascrizione costituisce una occulta riserva di potere. Quella riserva di potere che non solo permette alla difesa di acquisire con grave ritardo e in modo rocambolesco la “prova”, cioè la fonte sonora del parlato, ma soprattutto che, per negligenza, consegna una trascrizione dove non compare l’appellativo “u dottore”, sebbene pronunciato nell’intercettazione. Appellativo che identifica, che è una individuazione di un nome, che orienta l’interpretazione della conversazione, che instrada l’accertamento del fatto.

Dunque “omissis” è una locuzione declinata al participio passato, dunque indica una sottrazione già compiuta, uno svuotamento già consumato. Da chi? dalla pubblica autorità, che gestisce i pieni e i vuoti della rappresentazione della prova.

“Omissis” è locuzione che denuncia però ciò che vorrebbe impedire di vedere, secondo la legge dell’eterogenesi dei fini di vichiana memoria: paradossalmente denuncia a chiare lettere proprio il diritto “omesso”.

Omesso è il diritto di accedere alla prova sonora dell’intercettazione.

Omesso è il diritto di verificarne la compatibilità con la trascrizione offerta.

Omesso è il diritto di controllare il delicato percorso che va dalla captazione sonora del dialogo fino alla sua rappresentazione scritta.

Omesso è il diritto a un accertamento della verità secondo i canoni costituzionali del giusto processo.

“Omissis” indica una lacuna, una deplorevole mancanza di qualcosa di necessario. L’avvocatura tutta è chiamata a continuare contrastare questa depressione carsica, dunque occulta, di diritti e di garanzie.

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di Jacopo Benevieri (Penalista del Foro di Roma)

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