Il Commento di Michele Bontempi

IL DISPOSITIVO DELLA SENTENZA SCRITTO PRIMA DELLA DISCUSSIONE DELLA DIFESA: una riflessione che va oltre l’indignazione.
Senza retorica e senza infingimenti la gravità di aver trovato nel fascicolo processuale il foglio con il dispositivo della sentenza prima che l’avvocato difensore abbia svolto la sua arringa non sta nell’episodio in sé (che si aggiunge al variegato e fantasioso catalogo delle bizzarrie che vediamo ogni giorno in tribunale), ma in tutti gli altri casi in cui ciascun giudice, nel suo pc, hard disk oppure nella sua mente, abbia già scritto lo stesso foglio senza commettere la sciocchezza o la disattenzione di farlo vedere all’esterno.
Spesso abbiamo la sensazione che durante il processo e prima di ascoltare tutte le prove, specialmente quelle della difesa che vengono non a caso per ultime, il giudice pensi di avere già capito tutto e, in (più o meno) buona fede, avendo capito tutto, abbia già anche deciso. E lo abbia fatto (e qui sta il punto) secondo schemi di giudizio precostituiti appartenenti non a se stesso, ma alla sezione o al tribunale. Quando non ci sono criteri predefiniti nel suo ufficio, non si discosterà in ogni caso dalla giurisprudenza della cassazione.
È riduttivo pensare che i giudici non ascoltino l’arringa dell’avvocato della difesa, ma un conto è ascoltare un conto è farlo con pregiudizio, cioè essersi formato prima un giudizio che è a sua volta vincolato a schemi dettati da terzi.
Questo è il vero problema: avere giudici con la mente libera, autonoma e non condizionata da schemi astratti, che comprendano che ogni bancarotta, frode fiscale, colpa medica (per citare i processi più tecnici), ma anche lesione, maltrattamento o violenza sessuale sono fatti umani unici non ripetibili che richiedono una ragione aperta a comprendere in profondità e senza pregiudizi ogni aspetto della vicenda concreta.

Quando è questo l’atteggiamento del giudice (e qui non si possono fare delle percentuali perché non esistono statistiche della intelligenza e della saggezza umana), allora possiamo stare certi che prenderanno appunti sulle parole dell’avvocato perché hanno capito dov’è il segreto delle nostre parole: siamo interpreti insostituibili delle ragioni profonde dell’unica persona che sa come si è svolta o non si è svolta la vicenda: l’imputato.
Che spesso invece abbiamo l’impressione perda la sua umanità in Tribunale e si trasformi in un caso (per non dire un fascicolo), al quale applicare uno schema precostituito.
Qualche giorno fa il Ministro della Giustizia Nordio, rispondendo in Parlamento in merito alla presunta emergenza infortuni sul lavoro, ha valorizzato le esperienze delle Procure della Repubblica e dei Tribunali in cui ci sono dei gruppi di magistrati specializzati in determinati reati.
Questa specializzazione viene vista unanimemente come una virtù per l’efficienza della giurisdizione.
Non c’è invece il rischio che questa organizzazione interna del lavoro dei magistrati abbia portato negli ultimi anni all’adozione di schemi e criteri di decisione che, sotto la maschera della uniformità e della prevedibilità delle decisioni, giungono alla spersonalizzazione dell’imputato e del singolo processo?
Questa può essere una chiave di lettura dell’episodio accaduto al Tribunale di Firenze, che sarebbe un errore relegare a caso estremo ma che rappresenta invece la punta di un iceberg che galleggia e ogni tanto si scontra con un ostacolo che incontra sul suo cammino: l’avvocato.
Non a caso il reato che si stava decidendo in quel processo era un reato di genere, cioè una di quelle materie in cui i giudici ragionano per schemi fissi dettati o dal capo dell’ufficio o dalla giurisprudenza della cassazione. Non c’è da stupirsi quindi se all’esito del processo e prima della discussione il magistrato avesse già deciso, perché sapeva che a nulla sarebbe valsa l’arringa difensiva di fronte a quei rigidi criteri che avevano già fornito un responso.

Non è anche questa una forma di “intelligenza artificiale” sulla quale ci stiamo tanto interrogando per l’impatto che potrà avere sulla giurisdizione?
Prestiamo molta attenzione eccessiva prevedibilità delle decisioni perché è contraria alla funzione stessa del processo, che è di dirimere una singola controversia fra Stato e cittadino, ognuna diversa da un’altra e senza vincoli legati a schemi di ragionamento.
Nel processo accusatorio – che ancora abbiamo almeno sulla carta – c’è scritto che il giudice del dibattimento lo inizia “vergine”, senza conoscere il contenuto degli atti di indagine e che questa condizione è un requisito di imparzialità.
Allo stesso modo il giudice deve essere libero nel momento in cui si avvicina alla decisione, senza sentirsi condizionato (anche inconsciamente) da schemi imposti dall’esterno.
L’apertura mentale del giudice ai diversi epiloghi del processo è un pre-requisito per l’ascolto della parola dell’avvocato, altrimenti sarà sempre come se avesse già scritto e messo nel fascicolo il foglio di quel dispositivo per cui l’avvocatura è giustamente insorta.

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