Nicola Madìa  Avvocato/ Prof. Associato abilitato di diritto penale

Articolo pubblicato su “IL RIFORMISTA” del 18 febbraio 2024

Ilaria Salis in ceppi all’interno di un Tribunale ungherese ha colpito la sensibilità di tutti.

In Europa vige la carta di Nizza dove il rispetto della dignità della persona costituisce un limite invalicabile all’esercizio del potere degli Stati.

Quello che è accaduto a Ilaria è quel che avviene spesso nel nostro paese col sostegno, però, di coloro che oggi s’indignano.

Soprattutto se si tratta di un colletto bianco, anziché di compagni, la gogna viene spacciata per diritto di cronaca.

Nella sinistra radicale (dove ora si colloca il PD?) prevale un populismo giudiziario in salsa 5 stelle, disposto a rinunciare a garanzie fondamentali per vellicare gli istinti più beceri degli elettori e lisciare il pelo a un giornalismo amico o temuto che ha costruito le sue fortune appagando l’imperante sete di sangue del potente.

Sarebbe il caso, prima di puntare giustamente il dito contro il trattamento disumano riservato a Ilaria Salis, di recuperare i principi di civiltà giuridica da parte dei troppi garantisti un tanto al chilo, fautori di una giustizia di classe al contrario, giusta e compassionevole con i deboli (come è ovvio che sia), mediatica e forcaiola con i ceti dirigenti o rispetto ad alcune tipologie di accuse.

Chi viene denunciato per violenza sessuale è già considerato colpevole.

Guai a quanti osano invocare il diritto di difesa nel processo pubblico.

La conduttrice o il conduttore di turno, con sopracciglio alzato, aria severa e un po’ schifata, li tacitano per avere messo in dubbio la parola di chi accusa, come fosse un dogma.

E’ il momento di un equo contemperamento tra diritto di cronaca e presunzione d’innocenza.

La Consulta ricorda che nessuno diritto / interesse costituzionale può svolgere un ruolo tiranno, nel senso che nessuno di essi può assumere un’estensione tale da annullarne un altro.

Neanche il diritto alla salute o alla salubrità dell’ambiente possono fagocitare completamente altri interessi contrapposti, come quello al lavoro e alla crescita economica (il caso Ilva docet).

Nei talk show si sente spesso ripetere che la libera informazione non può subire limiti, essendo destinataria del dovere di pubblicare il contenuto di qualsiasi atto giudiziario (in particolare intercettazioni).

Si tratta d’impostazione da rigettare completamente.

I diritti della personalità sono costituzionalmente sovraordinati agli interessi della collettività, di talché l’immagine, la reputazione, la privacy e la dignità non possono cedere il passo al diritto all’informazione e alla spettacolarizzazione di un dramma giudiziario.

Pubblicare atti, tanto più se con taglio inquisitorio, scandalistico, costruendo una narrazione ricca di suggestioni negative verso l’accusato, ancorché, il più delle volte, difforme dalla realtà processuale, significa emettere condanne prima e al posto del processo, con gravissimi danni esistenziali.

D’altronde, la condanna della folla, plasmandosi sui soli atti prodotti dall’accusa nella fase delle indagini (del processo non interesse niente a nessuno!), non può che condizionare i futuri collegi giudicanti, soprattutto se composti da giurie popolari.

La gogna mediatica si risolve, dunque, in una patente violazione della presunzione d’innocenza che, come ha ormai sancito la Corte EDU, si esplica all’interno e all’esterno dell’agone processuale.

La presunzione d’innocenza costituisce un valore fondante, che si colloca al di sopra di qualsiasi altro diritto e la stampa non può pretendere di conculcarlo, foraggiandosi attraverso l’arma impropria di carte giudiziarie.

I poteri investigativi, che consentono d’ingerirsi pesantemente nelle vite degli altri, sono pensati per acquisire elementi da spendere in giudizio al fine dimostrare e reprimere reati, non certo per alimentare i bilanci degli editori.

Anche perché la professione giornalistica si nobilita quando “scopre” notizie, giammai quando si riduce a passacarte di documenti consegnati da qualche manina vicina alle Procure.

Si assiste di consueto a giornalisti che stazionano in Procura, mendicando notizie, stringendo rapporti di amicizia con taluni magistrati, fungendo da loro cassa di risonanza e, in sostanza, abdicando a un ruolo di critica nei confronti dell’ordine giudiziario, per assumere le vesti di meri “postini” interessati.

La comunanza d’interessi tra informazione e magistratura si tocca con mano quando sotto processo finiscono giornalisti di testate “amiche”.

In questi casi il diritto di cronaca viene evocato per legittimare qualsiasi forma di diffamazione.

Salvo, ovviamente, che persona offesa sia un magistrato, perché, allora, la giustizia domestica produce condanne certe e risarcimenti monstre.

Non ci si può neppure celare dietro l’arrugginito e ipocrita adagio secondo cui il giornalista non potrebbe esimersi dal “dare la notizia”.

La narrazione di una notizia non è mai operazione neutra, ma sempre mediata da suggestioni simboliche al fine di orientare l’opinione pubblica in sintonia con le idee del veicolo informativo.

L’avvocato è ormai costretto a distogliere energie dall’attività tecnica, pur di non sottrarsi all’onere di difendere l’assistito anche sui media, replicando alle propalazioni sfavorevoli e spesso fuorvianti.

Gli ordini professionali non brillano poi per imparzialità, giacché, purtroppo, il codice deontologico viene costantemente e impunemente violato.

Occorre riscoprire la figura del giornalista serio, che svolge indagini indipendenti.

Le notizie devono essere acquisite non dagli atti giudiziari, ma “sudandosele” e assumendosene, con coraggio, la completa responsabilità.

Il professionista, in caso di denuncia per diffamazione, sarebbe così gravato dell’onere di fornire autonoma dimostrazione della bontà del suo operato, senza potersi rifugiare dietro il facile alibi della pubblicazione di atti giudiziari e senza potere comodamente fruire dei risultati di attività investigative che devono essere utilizzabili solo per nei tribunali.

Basta con quel voyerismo giudiziario che preferisce vendere copie e incrementare ascolti, piuttosto che una corretta rappresentazione dei fatti.

Insomma, non solo in Ungheria, anche in Italia esempi di quotidiana inciviltà giuridica non mancano ed è odioso vedere applicata ai diritti umani la logica dell’amichettismo.

Se gli esiti di un’attività giornalistica che si concepisce legibus soluta sono diffamazione e distruzione di vite altrui, ben vengano quei correttivi (l’emendamento Costa è un inizio) volti al ripristino di valori certamente superiori, la cui importanza si percepisce solo quando si viene toccati personalmente.

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