Il Commento di Michele Bontempi

La banalità del perché accadono cose strane nel processo.
I magistrati di fronte al risarcimento per ingiusta detenzione non rispondono mai del danno erariale.
Si poteva immaginare chissà quale articolata ragione giuridica si celasse dietro l’irresponsabilità dei magistrati rispetto al danno erariale rappresentato dalla condanna dello Stato a pagare somme di denaro al cittadino a titolo di riparazione per ingiusta detenzione.
Si scopre invece che davanti alla Corte dei Conti non si apre mai alcun fascicolo per un motivo di una banalità sconcertante: all’esito della procedura di riparazione che si svolge davanti alla Corte di appello competente non avviene la trasmissione degli atti alla Procura presso la Corte dei Conti (come accade per qualsiasi altro pubblico dipendente), di guisa che l’autorità non può neppure valutare se sussistano i requisiti di una responsabilità erariale del magistrato, pubblico funzionario veramente sui generis.
Dunque, la mancanza di un adempimento materiale alla base di un fenomeno giuridico che è sotto gli occhi di tutti: l’irresponsabilità dell’unica categoria di professionisti al mondo.
Mi viene in mente quando poco tempo fa ho scoperto che una Procura della Repubblica non aveva ancora iscritto un procedimento penale per calunnia pur a seguito di ordine di trasmissione atti da parte di una Corte con sentenza.
Ho ricostruito con fatica la ragione della mancata iscrizione del procedimento per calunnia e la ragione più probabile è anche in questo caso la mancanza di un adempimento materiale: la trasmissione del dispositivo della sentenza alla Procura della Repubblica.
Poco importa se la Procura è un ufficio “impersonale” e il sostituto Procuratore titolare del caso aveva addirittura proposto appello contro la sentenza dimostrando quindi di esserne a perfetta conoscenza.
Così come mi viene in mente di avere assistito recentemente ad una scena quasi surreale: un Pubblico ministero che chiede l’attenuazione di una misura cautelare da arresti domiciliari a obbligo di dimora evidentemente al fine di interrompere il presofferto dell’imputato in modo tale che un domani – dopo la condanna definitiva – debba finire in carcere. E allo stesso tempo il difensore costretto ad opporsi alla attenuazione della misura anche qui dichiaratamente per il fine opposto.

Dove è finita quella lealtà basica nei comportamenti processuali, quel fair play, che è alla base del rispetto e della fiducia nelle comuni regole del gioco? Quando si forzano le regole processuali, quando si sfrutta una norma pur sapendo che la finalità della stessa non è quella per cui si agisce, si alterano gli equilibri non solo fra le parti processuali, ma quelli – ben più profondi – fra Stato e cittadino, creando le basi per quel sentimento di sfiducia nella giustizia che è sotto gli occhi di tutti ed è alla base poi di quella pericolosa tendenza a farsi o trovare giustizia seguendo altre vie.
Il processo, pur apparendo una sfida, non è una partita a scacchi.

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