Scrivere e parlare nella professione forense: tecniche e consigli pratici

PREFAZIONE DI FEDERIGO BAMBI
Professore di Storia del diritto medievale e moderno e di Lingua giuridica presso l’Università di Firenze, Accademico della Crusca.

Stucchevole anche la citazione di un grande, rimuginavo tra me e me, pensando di rifuggire dall’espediente retorico a cui spesso si ricorre per aprire uno scritto: il riportare un passo altrui, cercando così di spacciare di riflesso per propria l’arguzia e l’intelligenza che vi sono racchiuse. E subito, però, un pensiero che allontana dall’impegno di scrittura che avevo intrapreso: ma proprio quel libro dov’è finito? Son sicuro di averlo visto di recente in quella parte della biblioteca… no, non c’è… eppure ne ero sicuro… forse sarà dietro quella pila di libri che nasconde parte della mensola? Sì, eccolo: è proprio lui, con quella copertina démodé, con quel titolo in rosso sgargiante che poco si addice a un libro pur sempre di diritto (ma che contiene anche molto di più). Ecco l’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, nella IV edizione pubblicata da Le Monnier nel 1959, ventiquattro anni dopo la prima e tre dopo la morte dell’autore, Piero Calamandrei.
E – ci credereste? – nella pagina aperta a caso appena preso in mano il libro l’occhio mi cade su: Disse il cliente, nello scegliersi il difensore: – Eloquente e furbo: ottimo avvocato!
Disse il giudice, nel dargli torto: – Chiacchierone e  imbroglione: avvocato pessimo! 
E sopra, a riempire la stessa pagina 128:Che vuol dire «grande avvocato»? Vuol dire avvocato utile ai giudici per aiutarli a decidere secondo giustizia, utile al cliente per aiutarlo a far valere le proprie ragioni. 
Utile è quell’avvocato che parla lo stretto necessario, che scrive chiaro e conciso, che non ingombra l’udienza colla sua invadente personalità, che non annoia i giudici con la sua prolissità e non li mette in sospetto colla sua sottigliezza: proprio il contrario, dunque, di quello che certo pubblico intende per «grande avvocato».
Ecco: il libro di Iacopo Benevieri, se letto e ben digerito, può servire a diventare un «grande avvocato» nel senso di Piero Calamandrei (che anche questa volta a dispetto di ogni proposito è servito – chissà perché – a mettere a fuoco l’argomento).

Proprio perché questo non è un libro per chiacchieroni, e che soprattutto insegna a non essere chiacchieroni. Perché è un libro che racconta come si costruisce una pagina linguisticamente pulita con parole convenientemente scelte: riprese dalla lingua tecnica, quando è necessario, ma perlopiù da quella comune, senza bisogno di innalzare artificialmente il tono del discorso con quei paroloni che spesso il giurista usa per abitudine inveterata ma che sono privi di contenuto tecnico. «Argomentare significa [anche]
scegliere il lessico», cioè sapere cogliere tra le parole le più intime sfumature di significato che possono servire per orientare chi legge, cioè chi si vuole convincere; e soprattutto significa saper usare bene la punteggiatura e tutti i segni paragrafematici del testo (parentesi, impostazione grafica etc.).
Perché è un libro che opta per una semplicità ma ragionata nella costruzione sintattica del discorso: bene privilegiare di regola una scrittura piana, ma di fronte a una questione e a un ragionamento complessi il giurista scrittore dovrà essere avvezzo alle tecniche più ardue della subordinazione, se davvero vuol mostrare al suo interlocutore tutte le volute del ragionamento e non voglia correre il rischio che quest’ultimo, lasciato da solo di fronte a una sterile paratassi, non colga tutte le inferenze, non capisca e – peggio – non si convinca. Perché è un libro che si dilunga sulla costruzione retorica dell’atto, spiegando quali tra le figure della retorica classiche siano da preferire per non annoiare o fare indispettire il giudice. Perché è un libro che guarda a tutto tondo all’agire professionale dell’avvocato (ma anche del giudice) che scrive, ma anche parla a difesa o per l’accusa: deve dunque essere reso consapevole con una fitta serie di esempi di tutti gli aspetti prosodici, prossemici e cinesici del suo parlare e del suo muoversi. Soprattutto sono da condividere il punto di partenza e il punto di arrivo. Il giurista in genere deve essere un consapevole utilizzatore della lingua e di tutti i suoi strumenti, che riguardano essenzialmente la tecnica professionale giuridica e non sono altro rispetto a essa; per conseguenza la formazione linguistica deve diventare parte integrante dell’iter addestrativo del giurista, all’università o dopo. Il principio di chiarezza e sinteticità, a cui quelle tecniche sono dirette, non può essere visto come un obbligo da adempiere perché introdotto per l’occasione da un testo normativo (visto che è stato propugnato fin dall’antichità da Platone per bocca di Socrate, da Cicerone, fino a Goethe, Scialoja e Calamandrei), ma – l’ho scritto più volte – come una caratteristica essenziale dello scrivere del diritto che deve diventare automatica in tutti i giuristi perché strettamente connessa alla loro caratura deontologica. E chi non è disposto fin da principio a partire da questo presupposto, farà a bene a non leggerlo neppure questo libro, con tutti i rischi – non solo giudiziari in
tema di spese e oltre – che ne potrebbero derivare.

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(Avv. Iacopo Benevieri – Penalista Foro di Roma) 

Ed. Giappichelli (aprile 2024)

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