Il Commento di Michele Bontempi

I ragazzi al Beccaria umiliati e torturati. Agli arresti 13 agenti.

Della terribile vicenda relativa alle violenze scoperte nel carcere minorile Beccaria non riesco a togliermi dalla mente l’immagine dei tasselli degli stivali impressi come uno stampo sul volto di uno di questi ragazzi.
Cosa può portare un essere umano a schiacciare violentemente il viso di un ragazzino con la propria scarpa con tutta la forza che ha? Cosa proverà in quel momento? Come riuscirà, tornato a casa, a guardare in faccia e giocare con i propri figli?
Eppure, so che è giusto aspettare a giudicare, è giusto attendere che il processo accerti la verità.
Ma quanto è difficile applicare questa mistrattata presunzione di innocenza, me ne rendo conto quando mi sento emotivamente coinvolto.
È facile sbandierarla come un segno di civiltà quando sul banco degli imputati ci sono delle maschere anonime che non mi dicono nulla, è molto più arduo mantenere salda la barra del timone quando episodi di violenza come quelli denunciati al Beccaria si inseriscono in un mondo – quello delle carceri – che è ormai agli occhi di tutti di estrema e inaccettabile sofferenza, dove in 6 mesi si sono registrati 101 suicidi. Ho anche la fortuna/sfortuna di abitare in una città come Brescia che vive il paradosso di essere aperta all’accoglienza, solidale e con una rete invidiabile di associazioni impegnate ad aiutare chi ha bisogno ma che deve convivere allo stesso tempo con uno dei carceri peggiori d’Italia, una polveriera pronta a scoppiare in qualsiasi momento.
Anche per questo faccio veramente fatica a rimanere fedele – in un caso così doloroso – alla presunzione di innocenza anche per gli autori di queste violenze.
Ma poi, proprio mentre sto leggendo la rassegna stampa a senso unico di stamattina, mi viene in mente che c’è qualcosa di profondamente diverso – anche oggi, anche in questo caso – fra la sentenza già scritta dagli opinionisti all’indomani degli arresti e quella che, dopo tre gradi di giudizio, emetterà il processo.
E la diversità sta principalmente nelle domande complesse che non possono trovare una risposta senza il contributo della parola attraverso la quale le persone accusate delle violenze hanno il diritto di spiegare cosa, come e soprattutto perché hanno fatto o non hanno fatto ciò di cui vengono accusati. 

Già oggi ci chiediamo infatti cosa significhi quanto accaduto, se siano poche “mele marce” o un sistema, perché se la denuncia è del 2023 gli inquirenti ci hanno impiegato più di un anno per fare cessare queste condotte, perché nessuno se n’è accorto prima e ci si è mossi solo dopo una singola denuncia … e non abbiamo nè possiamo ambire ad avere risposte così in fretta.
Manca la parola della difesa, manca quel contraddittorio senza il quale avremo risposte solo a metà …
E io che sono un difensore oggi me ne stavo dimenticando.
La tentazione – lo confesso – è stata fortissima.

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