di Giuseppe Calderazzo – penalista del Foro di Locri (consigliere del direttivo della Camera Penale di Locri)

La domenica è per i credenti il giorno del Signore, il giorno del riposo. Eppure lavorano in tanti e in ogni campo tranne gli uffici giudiziari, almeno stando alla visione, un po’ grossier, che del sistema giustizia pare avere l’ufficio della polizia di frontiera dell’aeroporto di Malpensa. Un ufficio che ovviamente lavora anche di domenica gestendo e controllando un interminabile fiume di persone che entrano o lasciano il nostro paese.

Un lavoro difficile e meticoloso che richiede, oltre ad una conoscenza delle lingue straniere (l’italiano pare che sia scontato), competenze a più livelli da quello investigativo a quello giuridico e, naturalmente, una buona dose di buon senso che non guasta mai. Il resto lo fa la tecnologia – e quella in dotazione alla polizia Italiana, avverte il Ministero degli Interni, è all’avanguardia – che scruta documenti, bagagli e pedigree dei viaggiatori scoprendo ogni giorno furfanti, delinquenti e persino latitanti. Insomma c’è da stare tranquilli. E tranquillo era, in una soleggiata domenica di marzo, il buon Giuseppe (ometto il cognome per comprensibili ragioni), cittadino italiano, di ritorno, dopo vent’anni, dalla Repubblica Domenicana insieme con la sua “esposa”. Una vacanza, dopo tanti anni, per far vedere alla moglie il paese più bello del mondo, almeno questa era la sua intenzione. Non la pensava così la Polizia di frontiera che dopo averlo fatto attendere per alcune ore gli comunicava che doveva arrestarlo per un residuo di pena contenuto in un ordine di esecuzione della Procura Generale di Catanzaro che risaliva addirittura al 2012. A nulla sono valsi gli inviti del buon Giuseppe a un controllo più accurato e, soprattutto, a nulla sono valsi le interlocuzioni con l’avvocato, pure caratterizzate da uno scambio di mail e documenti. Durante la giornata, infatti, l’avvocato aveva documentato che quell’ordine di esecuzione era stato archiviato nel settembre del 2012 e sostituito da altro ordine di esecuzione emesso però dalla Procura di Reggio Calabria. Proprio quella Procura che nel giugno del 2022 aveva preso atto del provvedimento del Giudice che aveva dichiarato l’estinzione di tutte le pene, archiviata la posizione e chiesto ai carabinieri del paese di origine del signor Giuseppe – inizialmente incaricati dell’esecuzione – la restituzione di quell’ordine in quanto non c’era più nulla da eseguire. Qualcosa, o forse più di qualcosa, deve essere andato storto se la polizia di frontiera, dopo l’estenuante confronto con i documenti offerti dal legale, oppone, con il piglio della certezza, tre roboanti argomenti: i provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria ma provenienti da un avvocato devono essere confermati (vai a capire perché) dalla stessa autorità emittente e siccome era domenica questa verifica non poteva essere effettuata; i carabinieri di Borgia, appunto quelli inizialmente incaricati dell’esecuzione, sostenevano che il provvedimento del 2012 “era ancora in piedi” (in che senso?) perché sebbene avesse lo stesso numero di procedimento nei confronti della stessa persona e per quelle pene estinte da qualche anno portava comunque una “sigla” diversa; infine, buon ultimo, quel provvedimento del 2012 risultava inserito nella Banca dati interforze e da eseguire.

 

A prescindere dalla grottesca considerazione che i provvedimenti firmati da un giudice (sia esso requirente o giudicante poco importa) ma provenienti da un avvocato debbano essere verificati perché, evidentemente, ammantati dal sospetto figlio di quella subcultura della collusione che fa percepire con viscerale avversione, purtroppo non solo alle forze dell’ordine, alcuni fondamentali principi della nostra Costituzione, è interessante il blackout che subirebbe la verifica nel giorno del Signore. Che è come dire: di domenica non si possono arrestare le persone (esattamente quello che, però, stavano facendo) perché non ci sono pubblici ministeri di turno a Milano a cui dare “immediata notizia” del luogo dell’arresto, a cui “consegnare” l’arrestato e a cui consentire, magari, di liberarlo immediatamente quando l’arresto è stato effettuato “fuori dai casi consentiti dalla legge”. Evidentemente il test a risposta multipla con il quale si è brillantemente superato l’esame di procedura penale non contemplava domande sui doveri della polizia giudiziaria anche se mi pare di ricordare che almeno un paio di norme del codice di rito e altrettante della Costituzione non distinguano il lunedì dalla domenica. Insomma una giustificazione stravagante che sarà sicuramente interessante per la Procura di Catanzaro (che su quell’arresto sta indagando) e che suscita più irritazione che stupore, al pari della differenza di “sigla” tra i due provvedimenti che ha allarmato i militari. Non si trattava certo delle “sigle”, ben più complesse, efficacemente profanate dalla fulgida mente di Rino Gaetano – indicando semplicemente il cambio di posizione giuridica del soggetto – ma quell’allarme è indice rilevatore dell’inquietudine che suscita. Di ciò che realmente preoccupa.    Preoccupa l’analfabetismo giuridico e, ancor prima, costituzionale, che rende difficoltosa la comprensione del contenuto, anche elementare, dei provvedimenti giurisdizionali. Sconcerta insomma che dopo cinque ore di concitati confronti e di letture congiunte ben due forze di polizia del nostro Stato non abbiano mai trovato il “tempo” dei fatti (nell’accezione del termine) raccontati in quei provvedimenti. Mi spiego meglio. Se i provvedimenti di esecuzione sono stati emessi, a distanza di dieci anni (l’uno nel 2012 e l’altro nel 2022) da due procure diverse ma nei confronti della stessa persona e per le stesse pene e se nel più recente espressamente si precisa l’assorbimento di quello antecedente e la sua ovvia archiviazione, la estinzione di tutte le pene, la restituzione dell’ordine emesso perché non più eseguibile e l’archiviazione dell’intero procedimento esecutivo, cosa è parso oscuro all’attento lettore e soprattutto quando nella sedimentata consultazione si è perso quel numero che ha irrimediabilmente azzerato la distanza di due lustri? E se queste domande scatenano lo stato d’ansia quelle conseguenziali generano un dubbio atroce davanti al quale si staglia un gigantesco attacco di panico. Vuoi vedere che alla perentoria e recente richiesta della Procura di Reggio Calabria di “immediata restituzione” dell’ordine di esecuzione i militari hanno dato seguito alla lettera stimando di dover trattenere il più vetusto provvedimento che, del resto, non era stato richiesto?

 

Anche messa così qualcosa non torna perché se è vero che i provvedimenti devono essere restituiti ai titolari quello del 2012 era già stato illo tempore richiesto dalla Procura di Catanzaro e archiviato. In definitiva, se non si comprende (perché manca) la ragione dell’arresto – che ovviamente il giorno successivo è stato revocato proprio dalla Procura Generale di Catanzaro – di certo la vicenda è attraversata da una inquietudine di fondo chiaramente originata dalla disinvoltura con la quale si maneggia quel delicatissimo potere, ancorché provvisorio, di limitare un diritto inviolabile: la libertà personale. E non si tratta semplicemente di incompetenza, intesa come mancanza di organizzazione, struttura, professionalità e mentalità, ma di incoscienza dei limiti di quel potere. Se nel dubbio meglio arrestarlo sarebbe riduttivo individuare il cuore del problema nella incapacità di svolgere quel compito, più utile evidenziare l’insensibilità come mancanza di percezione delle distorsioni sul piano della stessa democrazia. Meglio, in sostanza, prendere atto di una progressiva riespansione dei poteri inquisitori della polizia giudiziaria alimentata dalla negazione di quelle scelte di valore, che presiedono all’opzione garantistica, quali il rispetto di libertà, personalità e dignità individuale nei confronti di un possibile arbitrio statuale.

 

In questa direzione la preoccupazione andrebbe calibrata sulla circostanza più inquietante dell’intera vicenda: il dato contenuto nella Banca dati interforze che riportava come da eseguire un provvedimento non solo archiviato 12 anni prima ma che conteneva pene definitivamente estinte già nel 2022. E qui, nel consueto rimpallo delle responsabilità, si è anche sfiorato il paradosso perché la direzione centrale della Polizia criminale presso il dipartimento che gestisce la banca dati si è affrettata a comunicare che “l’aggiornamento dei dati (..) è di esclusiva competenza dell’ufficio di polizia che ha a suo tempo iscritto la prima segnalazione”. Ora, a prescindere dall’opinabilità dell’assunto – dal momento che la giurisprudenza di legittimità individua proprio nell’autorità amministrativa il soggetto incaricato ad aggiornare il dato contenuto nella banca dati con quello proveniente dall’autorità giudiziaria – ciò che è evidentemente rilevante non è “chi” deve intervenire ma “quando” perché questo fa tutta la differenza del mondo tra la libertà e il carcere. E il buon Giuseppe lo sa bene. Ma nella legge che ha istituito, durante gli ultimi rigurgiti degli anni di piombo, questo simulacro di efficienza non c’è traccia di un tempo né di eventuali sanzioni per cui la negligenza anche quella cronica non è nemmeno percepita dalle forze di polizia. Certo a queste latitudini il processo penale telematico mi evoca l’immagine di una balena spiaggiata e ogni sforzo per favorire un’informazione responsabile e documentata – in modo da trasformare l’informazione in conoscenza, la conoscenza in coscienza – mi sembra un’utopia che, come diceva Edoardo Galeano, “è come l’orizzonte. Cammino due passi e si allontana di due passi. Cammino dieci passi e si allontana dieci passi. E allora a che cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare”.

 

E insomma è proprio vero: agitare la libertà di domenica non conviene, meglio attendere il lunedì ospiti dell’amministrazione penitenziaria in uno dei confortanti hotel nei dintorni dell’aeroporto; e pazienza se Vasco Rossi li odiava i lunedì.

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