Il commento di Michele Bontempi – penalista del Foro di Brescia

Quando un genitore viene riconosciuto colpevole per l’omicidio del proprio figlio ci assale una domanda: si rendeva conto dell’azione che stava compiendo?
È un gesto così innaturale che chi dà la vita la tolga, che un genitore sopravviva a proprio figlio per una sua scelta, da non essere riscontrato nemmeno nel mondo animale.

Alessia Pifferi è stata condannata all’ergastolo per aver abbandonato e lasciato morire di stenti la sua bambina di 18 mesi.
Quando un genitore viene riconosciuto colpevole per l’omicidio del proprio figlio ci assale una domanda: si rendeva conto dell’azione che stava compiendo?
È un gesto così innaturale che chi dà la vita la tolga, che un genitore sopravviva a proprio figlio per una sua scelta, da non essere riscontrato nemmeno nel mondo animale.
Poiché ciò che ci distingue dagli animali è proprio la psiche, non può non sorgere un grande punto interrogativo in relazione alla capacità di intendere e di volere di chi compie un tale gesto.
La perizia psichiatrica è la prova regina in questi processi, non esiste altra situazione processuale in cui la sorte di una persona venga completamente affidata al giudizio di un esperto, senza che il giudice abbia strumenti effettivi per valutarne l’operato.
L’idea di fondo del pensiero comune è che, se l’imputato viene dichiarato incapace, la fa franca e resta impunito, mentre così non è. Rimane comunque rinchiuso in un carcere che si chiama Rems, con la differenza – fondamentale – che lì viene curato e assistito da personale medico e non dalla polizia penitenziaria, che non ha competenze per gestire una patologia mentale.
Ma la formula della sentenza prevista dal codice: “assolve” risulta impronunciabile e perfino blasfema. L’opinione pubblica non l’avrebbe mai accettata nel caso di Alessia Pifferi.
La domanda se la sono posta gli stessi periti psichiatri che hanno esaminato il caso Pifferi, sentendo l’esigenza di chiedersi se “la spettacolarizzazione mediatica subita da questa drammatica vicenda avrebbe potuto costituire un’indiretta pressione psicologica sul perito e sui consulenti di parte”.
Un indizio che possa averci messo lo zampino la mediaticità del processo ci viene dai gravi motivi a sostegno della richiesta di condanna all’ergastolo che denotano un’idea della giustizia come garanzia di tutela della moralità più che di applicazione della legge: “per offrirle una speranza, la speranza di superare e compensare, attraverso la sofferenza della pena, il dolore che prima o poi le esploderà dentro”.
Dunque una pena concepita come sofferenza per compensare il male fatto, vi ricorda qualcosa?

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