Ripreso mentre scaricava materiali in una fabbrica in disuso, viene condannato al pagamento di una multa con contestazione del reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006.

Abbandono o deposito incontrollato dei rifiuti: sono i contorni giuridici della Sentenza in oggetto. Questo, a seguito del coinvolgimento di un imprenditore di materiali edili, che è stato accusato di deposito costante ed incontrollato di rifiuti speciali non pericolosi, all’interno di una fabbrica in disuso. Lo stesso imprenditore, di tanto in tanto bruciava gli stessi rifiuti per far posto a quelli aggiuntivi.

Il tribunale di Firenze, accertandone la responsabilità condannava al pagamento di 3.400,00 € di ammenda.

A seguito di ciò, l’imputato proponeva ricorso in Cassazione lamentando il vizio di motivazione della sentenza con riguardo alla ritenuta attribuzione del capo di imputazione. Secondo le argomentazioni dell’imputato, la responsabilità penale dell’illecito sarebbe determinata solo da elementi che non evidenziano un rapporto diretto nell’elaborazione del giudizio, quindi inconferenti: le fototrappole posizionate a sua insaputa all’interno del capannone e il rinvenimento dell’uomo all’interno del capannone una sola volta. Questi gli elementi per l’accusa che non attesterebbero il collegamento diretto fra illecito smaltimento e l’attività imprenditoriale svolta dal ricorrente.

Inoltre, deduce la difesa, il reato contestato è rinvenibile solo quando vi è un collegamento diretto fra l’attività di deposito incontrollato di rifiuti e l’esercizio di un’attività imprenditoriale. Questo è l’elemento distintivo fra la contravvenzione di cui all’art art. 255, comma 1, d. lgs. 152/2006 e l’illecito contestato al ricorrente, in ragione della maggiore produzione di rifiuti da parte dell’imprenditore rispetto al privato cittadino.

Il ricorso è infondato.

 

Il collegio, nell’analizzare gli elementi sottoposto alla sua attenzione, evidenzia che le conclusioni del giudice di primo grado sono esenti da vizi in quanto fondate su indizi gravi, precisi e concordanti.

Inoltre, le motivazioni del ricorrente si limitavano solo a contestare le evidenze fotografiche delle fototrappole, evitando il confronto con le dichiarazioni testimoniali di chi aveva esporto la denuncia.

Secondo i giudici, deve escludersi che, per la configurabilità del reato sia necessario di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, sia necessario un diretto collegamento tra i rifiuti abbandonati dal soggetto agente e l’attività ordinariamente svolta dall’impresa.

Per la normativa richiamata dal ricorrente di cui ll’art. 255, comma 1, si deduce che essa preveda una sanzione amministrativa a carico di «chiunque (…) abbandoni o depositi rifiuti»; diversamente dalla fattispecie di cui all’art. 256 comma 2, che invece contempla l’applicazione di sanzioni penali «ai titolari di imprese e ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti».

 

La sanzione penale è dunque stabilita non in ragione dell’attività svolta ma in ragione della qualifica soggettiva rivestita dall’agente.

La fattispecie penale di cui all’art. 256 comma 2 mira a sanzionare più severamente la condotta illegale di chi «si è organizzato o comunque ha l’onere di organizzarsi professionalmente o specificamente anche in funzione della necessità di smaltire lecitamente rifiuti, qualunque attività egli intraprenda, anche in via episodica, e che possa essere ricollegata all’impresa o all’ente cui è preposto».

 

A seguito di dette argomentazioni, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese.

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