In ipotesi di reato permanente ai fini dell’individuazione della norma applicabile per tempo – in ipotesi di inasprimento delle sanzioni – occorre aver riguardo al momento di cessazione della condotta che tuttavia non può essere desunto sulla base della fictio juris, costruita per via giurisprudenziale per altri scopi, che radica tale cessazione alternativamente al momento del fermo, al momento del decreto che dispone il giudizio o al momento della sentenza di primo grado, attenendo la questione al principio stesso della legalità della pena e dovendosi dunque individuare tale cessazione sulla base di sicuri elementi probatori della permanenza la cui allegazione rimane a carico della pubblica accusa.

Con ricorso ritualmente depositato il Procuratore Generale deduceva violazione di legge quanto alla individuazione da parte della Corte di Appello della disciplina sanzionatoria applicabile ex art. 416 bis cod.pen. sostenendo che era stata applicata la disciplina sanzionatoria preesistente la modifica del 2015 e ciò nonostante il più recente orientamento della Corte di Cassazione avesse stabilito che deve farsi riferimento alla pena applicabile al momento di interruzione della condotta permanente che, nel caso in esame, doveva intendersi quantomeno proseguito sino alla data di esecuzione dei fermi il 4 luglio del 2017.

La Corte, nel respingere il ricorso, ha precisato che in presenza di un reato permanente con contestazione effettuata in forma c.d. “aperta” o a “consumazione in atto”, senza indicare la data di cessazione della condotta illecita, la regola “processuale” per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all’accusa l’onere di fornire la prova a carico dell’imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all’indicato ultimo limite processuale. Il principio deve trovare rigorosa applicazione, soprattutto nelle ipotesi, quale quella di specie, in cui una successione di leggi abbia determinato effetti modificativi in peius del trattamento sanzionatorio (cfr. Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016, Rv. 267080 — 01 e Sez. I, n. 21928 del 17/03/2022, lerardi, Rv. 283121 — 01; conforme — e non difforme, come erroneamente ritenuto dalla Corte di appello — anche Sez. 2, n. 2709 del 13/07/2018, dep. 2019, Suarino, Rv. 274893 — 01, espressamente in motivazione a f. 9). Nel caso di specie, i giudici di merito, con valutazione del tutto corretta alla luce delle emergenze probatorie, ed in specie delle modalità e dei tempi dell’indagine penale, hanno spiegato che, nel caso particolare di interruzione di ogni indagine nei confronti dei gruppi criminali, costituiti dai singoli “locali”, ovvero dei loro partecipi, rimontante a diversi anni prima della modifica normativa de qua (nella specie almeno 5 anni), la regola giurisprudenziale dell’interruzione della permanenza alla data della pronuncia di primo grado, non può essere utilizzata per affermare una sorta di presunzione di permanenza della condotta in assenza di qualsiasi accertamento, quantomeno sulla perdurante attività della cosca nella quale il singolo affiliato risulta partecipe a titolo di concorso necessario.

L’argomento appare del tutto condivisibile dovendosi sottolineare che la giurisprudenza richiamata anche dalla pronuncia di appello (Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020 cit.), risulta affermata in relazione ad ipotesi in cui vi era prova piena della prosecuzione delle attività illecite della cosca anche dopo il 2015. Invero nella motivazione di tale ultima pronuncia si spiega che ancora nel 2016 la cosca era operativa, avendo compiuto un tentato omicidio, così che il concorso necessario nel reato associativo posto in essere da un gruppo criminale risultato operativo anche dopo la modifica delle pene ad opera della legge n. 69 del 2015, certamente giustificava l’applicazione delle nuove pene anche al singolo partecipe.

Viceversa quando, come nel caso in esame, alcun elemento sia stato acquisito per affermare la perdurante attività della cosca e del singolo affiliato chiamato a rispondere a titolo di concorso necessario, l’applicazione del nuovo regime normativo significherebbe applicare una presunzione di perdurante colpevolezza che non può avere spazio nel sistema e la cui operatività risulta sconfessata dall’orientamento giurisprudenziale pure della Corte di cassazione già citato (Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016 cit.).

Corte di Cassazione sez. II ud. 16 giugno 2023 n. 32569

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