Il delitto di falso in fotocopia è integrato quando l’atto sia formato con caratteristiche tali da rappresentare idoneamente, per la presenza di requisiti intrinseci sostanziali e formali, l’apparenza di un atto originale riprodotto con la fotocopia, ovvero in ipotesi di formazione mediante fotocopia di un documento inesistente ma presentato con caratteristiche tale da apparire un originale, mentre non è configurabile quando la fotocopia sia esibita ed usata come tale dal soggetto agente.

La Corte, muovendosi nel solco del principio statuito dalle SS.UU. nella sentenza n. 35814 del 2019, ha innanzitutto chiarito che la formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale. Per integrare il delitto di falso in fotocopia, infatti, è necessario che l’atto sia formato con caratteristiche tali da rappresentare idoneamente, per la presenza di requisiti intrinseci sostanziali e formali, l’apparenza di un atto originale riprodotto con la fotocopia. Non si discosta da questo principio, sostiene la Corte, la sentenza richiamata nel ricorso che presuppone la falsa formazione mediante fotocopia di un documento inesistente ma presentato con caratteristiche tali da voler sembrare un originale ed averne l’apparenza, ovvero ritiene integrato il falso nell’ipotesi in cui la formazione dell’atto sia idonea e sufficiente a documentare nei confronti dei terzi l’esistenza di un originale conforme; non, invece, nel caso in cui la fotocopia sia esibita ed usata come tale dal soggetto agente.

Sulla base di questo principio la Corte ha confermato la condanna dell’imputato – tratto a giudizio per aver falsificato un referto radiologico relativo alla sua persona, e per averlo presentato a fini risarcitori ad una compagnia assicuratrice accreditandolo come corrispondente all’inesistente originale – non senza correggere un errore di diritto della sentenza impugnata. Ed invero la Corte territoriale aveva erroneamente assegnato valore di atto pubblico di fede privilegiata al referto di cui si discute, in assenza di contestazione chiara, mancando nel capo di imputazione il relativo riferimento normativo e qualsiasi indicazione concreta circa la sua natura di atto pubblico avente valore di fede privilegiata. In proposito si è affermato da parte del più autorevole Collegio di nomofilachia (Sez. U, Sentenza n. 24906 del 18/04/2019 Ud. (dep. 04/06/2019) Rv. 275436) che in tema di reato di falso in atto pubblico, non può ritenersi legittimamente contestata, sì che non può essere ritenuta in sentenza dal giudice, la fattispecie aggravata di cui all’art. 476 c.p., comma 2, qualora nel capo d’imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell’atto, o direttamente, o mediante l’impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l’indicazione della relativa norma. In applicazione del principio le Sezioni unite hanno escluso che la mera indicazione dell’atto, in relazione al quale la condotta di falso è contestata, sia sufficiente a tal fine, in quanto l’attribuzione ad esso della qualità di documento fidefacente costituisce il risultato di una valutazione.

Corte di Cassazione sez. V ud. 27 aprile 2023 n. 30731

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