La Prima Sezione penale, in tema di estorsione, ha affermato che, nel caso in cui il delitto sia commesso, con minaccia “silente”, da soggetto appartenente ad un’associazione di tipo mafioso, sussiste l’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 3, cod. pen, richiamata dall’art. 629, comma secondo, cod. pen., la cui configurabilità è correlata alla sola provenienza qualificata della condotta intimidatoria, ma non quella di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., sotto il profilo dell’utilizzo del metodo mafioso, che postula un’ulteriore esternazione, funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato.

G.S. veniva, inizialmente, condannato dal G.U.P. presso il tribunale di Palermo alla pena di anni 12 di reclusione poiché accusato rispettivamente dei reati previsti dalle norme contenute negli artt. 416 bis c.p. (capo 1), riqualificato dal decidente in concorso esterno, 629 aggravato (capo 3).

L’imputato veniva, inoltre, condannato per un’altra ipotesi delittuosa.

La Corte di appello di Palermo assolveva l’imputato dal reato al medesimo ascritto al capo 1 perché il fatto non sussiste ed escludeva le circostanze aggravanti contestate sui capi residui rimodulando la pena in anni 5 mesi 10 e giorni 11 di reclusione e 1600 di multa.

Il ricorrente G.S. e il Procuratore Generale proponevano ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa dal giudice di secondo grado.

La quaestio iuris analizzata dal Supremo Collegio verte:

  • sulla sussistenza o meno della circostanza aggravante prevista dalla norma contenuta nell’art. 628, comma terzo, n. 3, c.p. “richiamata dall’art. 629, comma secondo, cod. pen.” e sulla sua configurabilità nel caso in cui essa sia “correlata alla sola provenienza qualificata della condotta intimidatoria”;
  • sulla possibilità di escludere (o meno) la circostanza aggravante prevista dalla norma contenuta nell’art. 416 bis.1 c.p. “sotto il profilo dell’utilizzo del metodo mafioso” atteso che quest’ultima “postula un’ulteriore esternazione, funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato”.

Primariamente, il Giudice di legittimità sottolinea come “ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 628, comma terzo n. 3, cod. pen., non è necessario che l’appartenenza dell’agente a un’associazione di tipo mafioso sia accertata con sentenza definitiva, ma è sufficiente che tale accertamento sia avvenuto nel contesto del provvedimento di merito in cui si applica la citata aggravante (cosi Sez. II n. 33775 del 4.5.2016, rv 267850)”.

Ciò posto, altro problema degno di nota è quello prospettato dal ricorrente G.S. il quale lamentava la ricorrenza della circostanza aggravante prevista dalla norma contenuta nell’art.  416 bis.1 c.p. da intendersi, nel caso di specie, nell’essersi avvalsi delle condizioni ex art. 416 bis c.p..

La Suprema Corte, sul punto, si sofferma sull’importanza di escludere la circostanza aggravante prevista dall’art. 416 bis.1 c.p., riconoscendo la sussistenza dell’unica aggravante prevista dalla norma contenuta nell’art. 628 comma 3 n.3 c.p., “al fine di evitare irragionevoli duplicazioni sanzionatorie”.

Il ragionamento si fonda sulla necessità di evitare una rischiosa “confusione” nella applicazione di ambedue le aggravanti dianzi citate.

Difatti la ratio della norma contenuta nell’art.  7 del d.l. 152/1991 (oggi art. 416 bis.1 c.p.) impone in capo all’operatore del diritto di vagliare e di circoscrivere la “concreta dimensione fenomenica delle condotte descritte nella norma, allo scopo di evitare la maggior punizione di condotte in realtà estranee al modello tipizzato o già altrove incriminate”.

Di tal che, ai fini della sussistenza della aggravante ex art. 416 bis.1 c.p., “non è sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata o la mera ‘caratura mafiosa’ degli autori del fatto, occorrendo invece l’effettivo utilizzo del metodo mafioso e dunque l’impiego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo (in tal senso, tra le altre, Sez. II n. 28861 del 14.6.2013, rv 256740 e Sez. VI n. 27666 del 4.7.2011 rv 250357; per l’ utilizzo implicito della forza di intimidazione v. Sez. II n. 37516 del 11.6.2013 rv 256659 e Sez. Il n. 26002 del 24.5.2018, rv 272884)”.

Tale passaggio argomentativo risulta fondamentale atteso che la ridetta aggravante sussiste solo nel caso in cui le condotte penalmente rilevanti, poste in essere dal soggetto agente, presentino un chiaro e inequivoco nesso di natura eziologica “rispetto all’azione criminosa, in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine, non essendo pertanto integrata dalla sola connotazione mafiosa dell’azione o dalla mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti di tale organizzazione (v. Sez. I n. 26399 del 28.2.2018, rv 273365)”.

Pertanto, l’elemento psicologico che “accompagna” la citata aggravante richiede “una particolare consistenza e direzione dell’elemento volitivo (cosciente e univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio, come ritenuto gia da Sez. VI n. 31437 del 12.7.2012 ) e la concreta strumentalità del reato commesso rispetto alle finalità perseguite dal gruppo criminoso di riferimento (che deve essere individuato, secondo quanto precisato da Sez. II n. 41003 del 20.9.2013, rv 257240 nonché da Sez. VI n. 1738 del 14.11.2018, dep.2019, rv 274842).

Ciò posto, la Suprema Corte ribadisce che, nel caso di soggetto affiliato “che realizzi (anche in concorso) una estorsione”, le circostanze aggravanti previste dalle norme contenute negli artt. 416 bis.1 c.p. e 628, comma terzo, n.3, c.p. (richiamata dall’art. 629, comma secondo, c.p.) possono coesistere.

La coesistenza si fonda su presupposti di fatto diversi poiché “la prima (…) presuppone l’accertamento che la condotta di reato sia stata commessa con modalità di tipo mafioso” restando esclusa la necessità che il soggetto agente sia necessariamente un intraneus al gruppo criminale, “mentre la seconda si riferisce alla provenienza della violenza o minaccia da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza la necessita di accertare in concreto le modalità di esercizio di tali violenza o minaccia né che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall’appartenenza alla associazione mafiosa (v. Sez. V n. 2907 del 23.10.2013, dep.2014, rv 267580)”.

Il monito (fondamentale) della Corte è quello di evitare rischiosi automatismi interpretativi e applicativi posto che le due norme in questione (e specificamente le due aggravanti) non possono essere poste in termini di assolutezza in un’ottica di “specialità o assorbimento” ribadendo che, in determini casi, il riconoscimento di una delle due circostanze determina il mancato riconoscimento dell’altra.

Orbene, in caso di minaccia silente, derivante esclusivamente dalla appartenenza sic et simpliciter del soggetto autore della condotta minatoria alla consorteria mafiosa, è possibile l’applicazione della circostanza aggravante ex art. 628 comma 3 n.3 c.p..

È, invece, da escludersi “l’avvenuto utilizzo del metodo mafioso (art.416 bis. l)” posto che, in tale caso, è necessaria una “esternazione funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato”.

Di tal che, “nel particolare caso della «minaccia silente» la applicazione dell’aggravante specifica di cui all’art.628 comma 3 n.3 esclude la contemporanea applicazione dell’aggravante di cui all’art.416 bis.1”.

 

Cass. Pen. Sez. I, sent. n. 39836/2023 del 19/04/2023 dep. 2/10/2023

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