La Sesta Sezione penale, in tema di ordine europeo di indagine, ha affermato:

  1. che l’oggetto dell’acquisizione all’estero della messaggistica criptata sulla piattaforma SKY-ECC non costituisce dato informatico utilizzabile ai sensi dell’art. 234-bis cod. proc. pen., sicché, in tale ipotesi, l’attività acquisitiva, se riguardante comunicazioni avvenute nella fase “statica”, dev’essere inquadrata nelle disposizioni dettate in materia di perquisizione e sequestro e, in particolare, in quella prevista dall’art. 254-bis cod. proc. pen., mentre se, avente ad oggetto comunicazioni avvenute nella fase “dinamica”, dev’essere inquadrata nella disciplina degli artt. 266 e ss. cod. proc. pen., in materia di intercettazioni telematiche;
  2. che la questione della sua illegittima emissione da parte del pubblico ministero italiano non può essere dedotta dinanzi al giudice italiano, nel caso in cui tale ordine sia stato emesso per acquisire una prova già disponibile nello Stato di esecuzione e la stessa sia stata definitivamente trasmessa da detto Stato. (In motivazione, la Corte ha precisato che, in tal caso, la difesa può soltanto far valere la mancanza delle condizioni di ammissibilità della prova secondo l’ordinamento processuale italiano);
  3. che l’utilizzabilità di prove acquisite all’estero a seguito della sua emissione è subordinata all’accertamento, da parte del giudice italiano, delle condizioni di ammissibilità dell’atto di indagine secondo le regole dell’ordinamento nazionale e del rispetto delle norme inderogabili e dei relativi principi fondamentali. (Fattispecie in tema di diritto della difesa all’accesso agli atti d’indagine con cui erano state acquisite e decriptate dall’Autorità francese comunicazioni telematiche su piattaforma criptata).

La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso della difesa – che lamentava, in sintesi, la violazione degli artt. 234-bis e 266 cod. proc. pen. per avere il Tribunale del riesame valorizzato il contenuto dei dati contenuti in atti qualificati come “documenti informatici”, acquisiti dall’autorità giudiziaria francese e trasmessi, dopo la “decriptazione”, all’autorità giudiziaria italiana in esecuzione di un ordine di   indagine   europeo (OEI) – ha escluso l’applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 234-bis cod. proc. pen., che stabilisce «E’ sempre consentita l’acquisizione di documenti e di dati informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso, in quest’ultimo caso, del legittimo titolare».

 

A tale disposizione normativa i giudici di merito, nel caso di specie, hanno fatto riferimento in maniera generalizzata, a tal fine richiamando l’orientamento interpretativo offerto in materia da alcune sentenze della Corte di Cassazione (per il quale cfr., tra le altre, Sez. 4, n. 16347 del 05/04/2023, Papalia, Rv. 284563; Sez. 1, n. 19082 del 13/01/2023, Costacurta, Rv. 284440; Sez. 1, n. 6364 del 13/10/2022, dep. 2023, Calderon, Rv. 283998; Sez. 6, n. 18907 del 20/04/2021, Civale, Rv. 281819).

 

Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, la messaggistica su “chat” di gruppo su sistema “Sky-ECC”, acquisita mediante ordine europeo di indagine da autorità giudiziaria straniera che ne ha eseguito la decriptazione, costituisce dato informativo documentale conservato all’estero, utilizzabile ai sensi dell’art. 234- bis cod. proc. pen., e non flusso comunicativo, non trovando applicazione la disciplina delle intercettazioni di cui agli artt. 266 e 266-bis cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 16347 del 05/04/2023, Papalia, cit., secondo cui non rileva se i messaggi siano stati acquisiti dall’autorità giudiziaria straniera “ex post” o in tempo reale, poiché al momento della richiesta i flussi di comunicazione non erano in atto).

 

Sostiene la Corte che l’operatività della richiamata disposizione può ritenersi giustificata esclusivamente nell’ipotesi di acquisizione di documenti e dati informatici, intesi come elementi informativi “dematerializzati”, che preesistevano rispetto al momento dell’avvio delle indagini da parte dell’autorità giudiziaria francese ovvero che erano stati formati al di fuori di quelle investigazioni, mentre, nel caso specifico, risulta in maniera sufficientemente chiara che quella acquisita è stata in parte documentazione di attività di indagine e in parte documentazione preesistente che ha, però, costituito oggetto delle ulteriori iniziative istruttorie di quella autorità straniera.

 

In particolare, la disposizione dettata dall’art. 234-bis cod. proc. pen. è di certo inapplicabile se riferita ai risultati di una attività acquisitiva che, anche in attuazione della richiesta di assistenza formulata dall’autorità giudiziaria italiana, si sia concretizzata nella apprensione occulta del contenuto archiviato in un “server’ ovvero nel sequestro di relativi dati ivi memorizzati o presenti in altri supporti informatici, nella disponibilità della società che gestiva quella piattaforma di messaggistica. In questa ipotesi è, altresì, discutibile il rilievo secondo cui l’acquisizione dei documenti e dati informatici — di certo non disponibili al pubblico — sia avvenuta con “il consenso del legittimo titolare”, cioè il mittente o il destinatario dei messaggi, ovvero l’anzidetta società di gestione della piattaforma, dovendo l’autorità giudiziaria straniera essere considerata mero detentore qualificato di quei dati a fini di giustizia.

 

Una siffatta attività acquisitiva, dice la Corte, va inquadrata nelle disposizioni dettate in materia di perquisizione e sequestri, in specie nella norma dettata dall’art. 254-bis del codice di rito (introdotto dalla legge 18 marzo 2008, n. 48), riguardante le ipotesi di sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi informatici, telematici e di comunicazioni (nei medesimi termini Sez. 6, 26/10/2023, R.G. n. 29723/23, Kolgjokaj). D’altro canto, se per l’acquisizione dei dati “esterni” al traffico telefonico o telematico è necessario far riferimento all’art. 132 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (e successive modificazioni) — il cui contenuto si tornerà da qui a breve ad esaminare — la disciplina degli artt. 266 e segg. cod. proc. pen. è applicabile nell’ipotesi in cui vi sia stata una captazione di comunicazioni telefoniche, ambientali o di flussi telematici in corso, nella fase c.d. “dinamica”. Ciò senza dimenticare che l’art. 43, comma 4, d.lgs. n. 108 del 2017, nel regolare le modalità di intercettazione di telecomunicazioni con l’assistenza tecnica dell’autorità giudiziaria di altro Stato membro dell’Unione europea, stabilisce che la richiesta contenuta in un ordine europeo di indagine «possa avere ad oggetto la trascrizione, la decodificazione o la decrittazione delle comunicazioni intercettate»: lasciando così intendere che anche tali attività latamente “accessorie”, se richieste dall’autorità italiana, debbano essere preventivamente autorizzate dal giudice.

 

In tale contesto non va trascurato che l’innanzi citato d.lgs. n. 196 del 2003, in conformità con l’assetto del diritto interno e della giurisprudenza all’epoca vivente, aveva originariamente sottratto le attività dell’acquisizione dei dati estrinseci presso i gestori del traffico telefonico o telematico, tanto per la fase attiva che passiva, alla disciplina delle intercettazioni, prevedendo condizioni meno gravose di quelle  richieste per la captazione dei “contenuti comunicativi”, rispettivamente legittimando all’emissione dell’ordine durante la fase delle indagini preliminari il pubblico ministero e rinviando invece alle previsioni dell’art. 256 cod. proc. pen. in tema di ordine di esibizione di documenti per il riconoscimento ed esecuzione di ordini emessi all’estero.

Le SS.UU. Tammaro e D’Amuri, prendendo le mosse dalle pronunce della Corte costituzionale (segnatamente la sentenza n. 281 del 1998), avevano infatti escluso dalla nozione di intercettazione — che attiene “all’apprensione e all’acquisizione del contenuto di comunicazioni” — le “acquisizioni a fini probatori di notizie riguardanti il fatto storico dell’avvenuta comunicazione”, ritenendo sufficiente il decreto motivato del P.M. per acquisire i tabulati telefonici, così da attuare una tutela costituzionale proporzionata alla lesione della riservatezza della sfera privata in ragione della limitata invasività dell’atto che ha come oggetto l’acquisizione di “elementi esterni” della telecomunicazione, non segreti per il gestore del servizio e l’abbonato.

 

Questo quadro della normativa nazionale per l’acquisizione presso il “server” dei dati esterni alle telecomunicazioni è stato profondamente modificato a seguito degli arresti della Corte di giustizia dell’Unione europea.

 

Con la sentenza del 2 marzo 2021 (H.K., C-746/18), la Grande Camera ha chiarito quali siano le condizioni per l’accesso per finalità di prevenzione o accertamento di reati ai dati relativi al traffico telefonico/informatico o ai dati relativi all’ubicazione ad esso associati, al dichiarato scopo di coniugare tale attività con gli artt. 7, 8 e 11 e 52 della Carta dei diritti fondamentali. La Corte, nel rammentare come tali dati “esterni” alle comunicazioni siano in grado di svelare informazioni molto precise sulla vita privata delle persone i cui dati sono stati conservati, come le abitudini della vita quotidiana, i luoghi di soggiorno permanenti o temporanei, gli spostamenti giornalieri o di altro tipo, le attività esercitate, le relazioni sociali di tali persone e gli ambienti sociali da esse frequentati, ha stabilito in primo luogo che l’accesso deve essere circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica; e in secondo luogo che non possa essere il pubblico ministero l’autorità competente ad autorizzare l’accesso a tali dati.

 

In ordine al primo profilo, la Corte ha ribadito come le deroghe alla protezione dei dati personali e le limitazioni di quest’ultima devono compiersi entro i limiti dello stretto necessario: quindi l’accesso deve soddisfare il requisito di proporzionalità, con la conseguenza che “tanto la categoria o le categorie di dati interessati, quanto la durata per la quale è richiesto l’accesso a questi ultimi, siano, in funzione delle circostanze del caso di specie, limitate a quanto è strettamente necessario ai fini dell’indagine in questione”.

 

Quanto al secondo profilo, la Corte ha rilevato come solo un giudice o un’autorità indipendente terza nel processo possano esercitare in modo imparziale ed obiettivo il controllo della sussistenza delle condizioni sostanziali e procedurali per l’accesso, così da garantire “un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso”.

 

Questa sentenza ha avuto un dirompente impatto sull’ordinamento italiano, tanto da richiedere un intervento normativo in via d’urgenza (decreto-legge n. 132 del 2021) che, con le novelle disposizioni inserite nell’art. 132 Cod. privacy (così come risultanti dalla legge di conversione n. 178 del 2021), ha “giurisdizionalizzato” nel procedimento penale la procedura di acquisizione dei dati esterni di traffico telefonico e telematico (che richiede ora un provvedimento autorizzatorio motivato del giudice), selezionandone l’ambito oggettivo di applicazione, esperibile solo nell’ambito dei procedimenti iscritti per reati connotati da una certa gravità indiziaria, configurata quoad poenam.

 

Quanto al criterio di proporzionalità, il legislatore ha ancorato l’accesso, da un lato, al presupposto indiziario e, dall’altro, alle esigenze investigative. Il primo requisito è stato individuato in un livello di accertamento inferiore (sufficienti indizi) rispetto a quello previsto per l’autorizzazione del diverso e ben più invasivo mezzo di ricerca della prova delle intercettazioni. Il secondo (“ove rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini”) viene ad attuare il dictum della Corte di giustizia là dove ha imposto la verifica in concreto dell’effettiva necessità di un intervento acquisitorio, così da escludere la sua utilizzazione per inquisitio generalis.

In questa ottica, continua la Corte, è possibile concludere che l’acquisizione all’estero di documenti e dati informatici inerenti a corrispondenza o ad altre forme di comunicazione debba essere sempre autorizzata da un giudice: sarebbe davvero singolare ritenere che per l’acquisizione dei dati esterni del traffico telefonico e telematico sia necessario un preventivo provvedimento autorizzativo del giudice, mentre per compiere il sequestro di dati informatici riguardanti il contenuto delle comunicazioni oggetto di quel traffico sia sufficiente un provvedimento del pubblico ministero.

 

In tale quadro normativo e giurisprudenziale assume una rilevanza centrale la posizione assunta dalla Corte costituzionale in ordine alla estensione applicativa delle garanzie previste dall’art. 15 Cost. in materia di libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. I Giudici delle leggi hanno recentemente chiarito che — ferma restando la distinzione tra l’attività di intercettazione, che concerne la captazione occulta da parte di un “extraneus” di comunicazioni nella loro fase c.d. “dinamica”, e l’attività di sequestro, che attiene all’acquisizione del supporto recante la memoria di comunicazioni già avvenute, cioè nella loro fase c.d. “statica” — il concetto di corrispondenza, cui va assicurata la “copertura” dell’art. 15 Cost., è «ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (…) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza; …(di talché) la tutela accordata dall’art. 15 Cost. — che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge» — prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato …(e)… si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici». Ne consegue che l’art. 15 Cost., riferibile alla «generalità dei cittadini», tutela la corrispondenza «ivi compresa quella elettronica, anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in mero documento “storico”» (Corte cost., sent. n. 170 del 2023).

 

Tale autorevole indicazione interpretativa possiede indubbiamente una valenza di carattere generale nella parte in cui è stata considerata la portata precettiva dell’art. 15 Cost., inducendo la Corte di Cassazione a valorizzarne le implicazioni in relazione al caso di specie. Sotto questo punto di vista, infatti, la richiamata decisione del Giudice delle leggi si “salda” coerentemente con il già sufficientemente definito orientamento esegetico della giurisprudenza costituzionale in base al quale si era puntualizzato che la tutela prevista da quella disposizione della carta fondamentale — che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge» — “apre” «il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata» (Corte cost., sent. n. 2 del 2023, a proposito della illegittimità della norma sui divieti, stabiliti dall’autorità amministrativa, di possesso e utilizzo di apparecchi di comunicazione) e si estende «ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale», in relazione ai quali le limitazioni della libertà costituzionale sono consentite solamente nel rispetto «della riserva assoluta di legge e di giurisdizione» (Corte cost., sent. n. 20 del 2017, a proposito delle forme di controllo della corrispondenza epistolare del detenuto; conf., in precedenza Corte cost. sent. n. 1030 del 1988; e Corte cost. sent. n. 81 del 1993).

 

Né vi è dubbio che la Corte costituzionale, proprio considerando le garanzie connesse alla “riserva di giurisdizione”, ha esteso alla libertà delle comunicazioni i criteri applicati per legittimare le limitazioni della libertà personale: spiegando che «il significato sostanziale, e non puramente formale, dell’intervento dell’autorità giudiziaria, in presenza di misure di prevenzione che comportino restrizioni rispetto a diritti fondamentali assistiti da riserva di giurisdizione», comporta che quel controllo vada inteso come «vaglio dell’autorità giurisdizionale (…) associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa» (Corte cost., sent. n. 2 del 2023).

 

L’indirizzo ermeneutico privilegiato dalla Consulta si collega, altresì, alle posizioni assunte in materia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che — come ricordato espressamente nella sentenza n. 170 del 2023 — ha ricondotto «sotto il cono di protezione dell’art. 8 CEDU, ove pure si fa riferimento alla “corrispondenza” tout court, i messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sent. 5/09/2017, Barbulescu c. Romania, § 72; Corte EDU, sent. 3/04/2007, Copland c. Regno Unito, § 41), gli SMS (Corte EDU, sent. 17/12/2020, Saber c. Norvegia, § 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Corte EDU, sent. Barbulescu, cit., § 74)».

Nell’individuare la disciplina processuale più confacente al caso di specie, la relativa normativa interna va, poi, necessariamente letta e interpretata in maniera conforme ai principi formulati dalla legislazione eurounitaria. Al riguardo, la più volte citata Direttiva OEI stabilisce che l’ordine europeo di indagine debba essere “necessario” e “proporzionato” ai fini del procedimento penale, “tenendo conto dei diritti della persona sottoposta a indagini o imputata”, alla quale, a tale fine, spetta la conoscenza dei “dettagli dell’indagine” (così nel considerando n. 10 della direttiva).

Occorre, inoltre, considerare che l’art. 3 d.lgs. n. 108 del 2017 prevede che «nel compimento delle attività relative all’emissione, alla trasmissione, al riconoscimento ed all’esecuzione dell’ordine di indagine, i dati personali sono trattati secondo le disposizioni legislative che regolano il trattamento dei dati giudiziari e in conformità agli atti normativi dell’Unione europea e alle Convenzioni del Consiglio d’Europa».

 

Di tanto vi è riscontro nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale ha avuto modo di sottolineare, da un lato, come l’acquisizione dei dati di traffico telefonico o telematico, proprio perché attività diretta ad incidere sul diritto alla riservatezza, di cui agli artt. 7 e 8 CDFUE, debba avvenire con modalità che garantiscano un adeguato controllo giurisdizionale (Corte giust. UE, sent. 2/03/2021, H.K., C-746/18, cit.): acquisizione che, in caso di emissione di un ordine europeo di indagine, deve consentire all’interessato di promuovere un adeguato mezzo di impugnazione, sì da esercitare validamente il diritto al ricorso effettivo di cui all’art. 47 CDFUE (Corte giust. UE, sent. 11/11/2021, Gavanozov, C-852/19). E, da altro lato, come, in disparte il criterio di autonomia di ciascuno Stato membro nel regolare «le modalità processuali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto delI’Unione», occorra, in ogni caso, che quelle modalità “non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno”, e “che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti”, evitando che “informazioni ed elementi di prova ottenuti in modo illegittimo rechino indebitamente pregiudizio a una persona sospettata di avere commesso reati” (Corte giust. UE, sent. 16/12/2021, HP, C-724/19).

 

  1. Quanto al secondo profilo di censura – relativo alla competenza all’emissione dell’ordine europeo di indagine – la Corte ha precisato che la Direttiva OEI – strumento normativo dell’Unione europea  che  si iscrive nel quadro del sistema del mutuo  riconoscimento  dei  provvedimenti giudiziari in materia penale – prevede  che,  per  compiere  uno  o  più  atti  di indagine specifici in un altro Stato membro (lo «Stato di esecuzione») ai fini di acquisire prove, sia emessa “una decisione giudiziaria” (’ordine europeo di indagine) da una autorità competente, secondo l’ordinamento nazionale, a

disporre tali atti. E ciò al fine di garantire che “l’atto o gli atti di indagine richiesti nell’o.e.i. avrebbero potuto essere emessi alle stesse condizioni in un caso interno analogo” (art. 6).

 

Quindi l’o.e.i. presuppone in primo luogo la “competenza” dell’autorità di emissione all’adozione dell’atto “specifico” che si intende eseguire all’estero e, coerentemente, la sussistenza delle condizioni per l’emissione dell’atto in questione nello Stato di emissione.

 

Questa regola ha la funzione di assicurare già nello Stato di emissione il controllo “a monte” sull’atto che si intende eseguire od ottenere all’estero: spetta infatti all’autorità di emissione il compito di accertare ai sensi dell’art. 6, par. 1, della Direttiva «se le prove che si intende acquisire sono necessarie e proporzionate ai fini del procedimento, se l’atto di indagine scelto è necessario e proporzionato per l’acquisizione di tali prove», nonché «il pieno rispetto dei diritti stabiliti nell’articolo 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea» (considerando n. 11).

 

Il d.lgs. n. 108 del 2017, che ha dato attuazione alla Direttiva del 2014, all’art. 27 ha stabilito che autorità competenti ad emettere l’o.e.i. sono il pubblico ministero e il giudice che procede «nell’ambito delle rispettive attribuzioni», assegnando così al pubblico ministero la legittimazione alla emissione dell’ordine per la fase delle indagini preliminari.

Il legislatore delegato ha così valorizzato il “dominio” della fase da parte del pubblico ministero, anche quando l’o.e.i. abbia per oggetto attività postulanti il previo controllo autorizzativo del giudice, posto che la competenza del giudice per le indagini è soltanto incidentale. Il decreto ha altresì escluso per tale fase che l’emissione dell’o.e.i. debba essere preceduta dal contraddittorio con le parti (riservato solo ai procedimenti in cui sia il giudice ad emettere l’ordine). Quindi la scelta del legislatore delegato è stata quella di diversificare la competenza ad emettere l’o.e.i. da quella ad emettere l’atto di indagine richiesto.

 

Peraltro, nell’attribuire al pubblico ministero per la fase delle indagini la competenza ad emettere l’o.e.i. per ogni tipologia di atto da acquisire all’estero, il decreto legislativo ha espressamente previsto — se pur per le sole intercettazioni – che l’ordine sia preceduto dalla adozione del provvedimento di autorizzazione da parte del Giudice per le indagini preliminari (art. 43).

 

Spetta a quest’ultimo infatti «verificare i presupposti della richiesta, in base alla disciplina codicistica», e quindi — eventualmente – respingerla in assenza di tali presupposti (così espressamente la Relazione illustrativa). Poiché il provvedimento autorizzativo non è previsto possa essere allegato all’ordine, nell’o.e.i il pubblico ministero dovrà esporre «i motivi per cui considera l’atto di indagine utile al procedimento penale».

 

Quando invece l’atto da eseguire all’estero sia di competenza dello stesso pubblico ministero, secondo la disciplina codicistica, è l’o.e.i. — quale decisione giudiziaria — a costituire l’atto interno di indagine (l’art. 28 infatti prevede in caso di sequestro probatorio che sia l’o.e.i. ad essere oggetto di impugnativa). L’o.e.i. può essere emesso anche per acquisire prove già disponibili nello Stato di esecuzione (art. 1: “prove già in possesso dell’autorità dello Stato di esecuzione”). La Direttiva OEI, infatti, ha inglobato il meccanismo di cooperazione già previsto in ambito U.E. per l’acquisizione di mezzi di prova già esistenti e disponibili nello Stato di esecuzione – la decisione quadro 2008/978/GAI sul mandato di ricerca della prova (che l’ItaIia non ha implementato) – che, come si legge nella proposta della Commissione europea (doc. COM (2003) 688 del 14 novembre 2003), poteva essere utilizzato per acquisire anche «i dati esistenti riguardanti le comunicazioni intercettate».

 

Quanto alle regole previste da tale ultimo strumento, è significativo che la decisione quadro avesse previsto, quali condizioni per l’emissione del mandato, non solo una valutazione da parte dell’autorità di emissione sulla necessità e proporzionalità dell’acquisizione delle prove rispetto al procedimento penale a quo, ma anche la “compatibilità” della stessa acquisizione rispetto alla legislazione dello Stato di emissione “se le prove fossero state disponibili nel territorio dello Stato di emissione” (il mandato, in altri termini, poteva essere emesso soltanto nei casi in cui gli oggetti, i documenti o i dati erano acquisibili in base alla legislazione nazionale). Tale condizione, come si legge nella relativa proposta della Commissione europea, intendeva evitare che il suddetto meccanismo di acquisizione della prova venisse ad aggirare divieti o limiti previsti dalla legislazione dello Stato di emissione.

Poiché né la Direttiva OEI né il decreto legislativo attuativo hanno dettato regole specifiche per l’emissione dell’o.e. i. per l’acquisizione di prove già disponibili, deve ritenersi ferma anche per tale forma di ordine la competenza del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari.

 

Il problema piuttosto attiene alla necessità che l’o.e.i. sia preceduto o meno da un provvedimento autorizzativo del giudice, laddove questo sia previsto dalla normativa nazionale per la tipologia di atto da acquisire; il chè immette nel terzo profilo di censura.

 

  1. La Corte infatti chiarisce – in relazione al caso specifico – quali siano le conseguenze derivanti dalla illegittima emissione dell’o.e.i. in quanto non preceduto dal necessario provvedimento del giudice.

 

Sotto questo profilo va evidenziato che la Direttiva OEI prevede che la difesa possa in primo luogo far valere i mezzi di impugnazione disponibili presso lo Stato di esecuzione così da impedire il riconoscimento dell’o.e. i. o la trasmissione della prova o comunque la sua utilizzazione nel procedimento ad quem (art. 14), dovendo lo Stato di emissione tener conto dell’esito di una impugnazione attuata con successo dall’interessato. Tra i profili che la difesa può far rilevare presso lo Stato di esecuzione si pone quello della competenza dell’autorità di emissione ad adottare Io specifico atto richiesto (in tal senso cfr. sent. Corte giust. UE, 16/12/2021, HP C-724/19, cit.).

 

A sua volta, lo Stato di emissione, come ha chiarito la Corte di giustizia, indipendentemente dai rimedi esperibili presso lo Stato di esecuzione, deve consentire alla difesa di contestare «la necessità e la regolarità di un ordine europeo di indagine» (sent. 11/11/2021, Gavanozov, C-852/19).

 

Nel silenzio del decreto attuativo della Direttiva OEI, deve ritenersi che la difesa possa avvalersi dei rimedi previsti dal nostro ordinamento per sottoporre a verifica il profilo della illegittimità dell’o.e.i. (principio già affermato dalle Sezioni Unite con riferimento ad una richiesta di assistenza giudiziaria, Sez. U, n. 21420 del 16/04/2003, Monnier). Ebbene, laddove risulti che l’attività di indagine svolta all’estero sia stata eseguita sulla base di un ordine illegittimo, perché emesso senza il necessario provvedimento del giudice, la genesi patologica della prova raccolta all’estero non può che riflettersi sul procedimento penale di destinazione, decretando la inutilizzabilità della prova.

 

Diverse sono invece le conseguenze di tale illegittimità laddove si accerti che l’o.e.i. è stato emesso al fine di acquisire una prova “già disponibile” nello Stato di esecuzione.

Posto che non risulta che la difesa ha eccepito con successo presso lo Stato di esecuzione la illegittima emissione dell’o.e. i. da parte del pubblico ministero italiano, tale profilo, secondo la Corte, risulta definitivamente assorbito dalla trasmissione della prova ad opera di quest’ultimo (verificandosi un caso analogo a quello in cui la prova è stata spontaneamente messa a disposizione di un altro Stato, secondo un meccanismo oramai consolidato nella normativa internazionale e nelle prassi delle relazioni tra Stati).

 

Ciò non esclude, peraltro, come ha richiesto la Corte di giustizia, che la difesa possa ottenere, attraverso i rimedi disponibili nella nostra legislazione, la verifica sulla sussistenza delle condizioni di ammissibilità della prova secondo le regole proprie dell’ordinamento nazionale. Verifica che, in quanto non effettuata dal giudice nel procedimento a quo prima dell’emissione dell’o.e.i., incidentalmente, può essere effettuata successivamente anche dal Giudice del riesame.

 

La Direttiva OEI non ha disciplinato infatti la utilizzabilità della prova acquisita con l’o.e.i., rinviando per tale aspetto al diritto dello Stato di emissione, fatti salvi in ogni caso “i diritti della difesa” e le garanzie di “un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l’OEI» (art. 14, par. 7). Così, nel caso di risultati di operazioni di intercettazione già disponibili nello Stato di esecuzione, la norma di riferimento nella prospettiva nazionale non può essere soltanto l’art. 270 cod. proc. pen. che regola l’utilizzazione della prova acquisita in altro procedimento.

 

Come hanno chiarito le Sezioni Unite, a tale norma risulta del tutto estraneo il procedimento di “ammissione” dell’intercettazione, che tuttavia non può non rilevare nel giudizio ad quem sotto il profilo della legalità del procedimento di autorizzazione ed esecuzione delle intercettazioni: se la violazione della garanzia di libertà e segretezza delle comunicazioni può rendere inutilizzabile la prova nel giudizio a quo, a maggior ragione deve poter rendere inutilizzabile la prova nel giudizio ad quem, nel quale ha più ristretti limiti di ammissibilità.

 

E del resto è evidente a quali abusi si presterebbe altrimenti la circolazione di una prova

privata della memoria della sua genesi (Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, Esposito, Rv. 229244). È pertanto evidente che, nel sistema delineato dalla Direttiva OEI, per l’acquisizione dei risultati di un’intercettazione già svolta all’estero,   non   è sufficiente che tale prova sia stata autorizzata da un giudice di uno  Stato membro nel rispetto della legislazione di tale Stato, ma occorre il controllo — che non può essere affidato che al giudice nazionale dello Stato di emissione — sull’ammissibilità e sulla utilizzazione della prova stessa (l’intercettazione) secondo la legislazione italiana.

 

Resta da chiarire, infine, quale sia il regime di utilizzabilità della prova raccolta con il sistema dell’o.e.i.

 

La Direttiva OEI, come anticipato, non contiene disposizioni sul punto, posto che è affermazione costante della Corte di giustizia che «in assenza di una normativa dell’Unione» in tema di ammissibilità e valutazione delle prove acquisite attraverso gli strumenti di cooperazione giudiziaria, dovrebbe spettare agli ordinamenti nazionali, ai sensi del principio dell’ “autonomia procedurale”, stabilire «le modalità processuali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione». L’importante è che queste ultime «non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno», e «che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti», evitando che «informazioni ed elementi di prova ottenuti in modo illegittimo rechino indebitamente pregiudizio a una persona sospettata di avere commesso reati» (Grande Sezione, 6 ottobre 2020, C-511/ 18, C-512/ 18 e C-520/18).

 

Il decreto legislativo a sua volta si è limitato a stabilire nell’art. 36 quali atti possano essere raccolti nel fascicolo per il dibattimento, replicando la disciplina in tema di rogatorie (art. 431 cod. proc. pen.). Vengono in considerazione pertanto, in quanto compatibili,  i  consolidati principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di utilizzabilità dei risultati delle rogatorie, ovvero la regola della   prevalenza   della   “lex loci”   sulla “lex fori“, secondo cui l’atto è eseguito secondo le norme processuali dello Stato richiesto, con l’unico limite che la prova non può essere utilizzata se la stessa sia in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano (tra le tante, Sez. 3, n. 1396 del 12/10/2021, dep. 2022, Rv. 282886; Sez. 5, n. 1405 del 16/11/2016, dep. 2017, Rv. 269015; Sez. 2, n. 2173 del 22/12/2016, dep. 2017, Rv. 269000; Sez. 5, n. 45002 del 13/7/2016, Rv. 268457).

 

Questi ultimi costituiscono invero il limite inderogabile per l’utilizzabilità della prova assunta all’estero ex art. 191 cod. proc. pen. Tra i principi cardine dell’ordinamento italiano, ai quali l’atto probatorio assunto all’estero deve conformarsi, secondo la cennata interpretazione costituzionalmente vincolata, la giurisprudenza di legittimità ha fatto costantemente riferimento alla tutela dell’inviolabile diritto di difesa ex art. 24

comma 2 Cost. e del contraddittorio per la prova di cui all’art. 111 Cost. (Sez. 1, n. 19678 del 03/03/2003, Rv. 225744).

 

Se, da un lato, la Suprema Corte ha escluso che si possa pretendere un integrale adattamento della fattispecie tipica dell’atto rogato alle linee del modello processuale interno, ovvero un’automatica trasposizione in materia di cooperazione giudiziaria internazionale di ogni regola o divieto probatorio provvisti dal codice di rito della sanzione dell’inutilizzabilità; dall’altro lato, ha chiarito che le prerogative difensive, che devono modularsi nella loro esplicazione sulla legge dello Stato che ha dato esecuzione all’ordine di indagine, non possono essere compresse nel loro nucleo essenziale.

 

Per quel che attiene, in particolare, al diritto della persona imputata di poter conoscere e contestare il materiale probatorio utilizzato a proprio carico, la Suprema Corte ha ritenuto, in tema di intercettazioni, che vada garantito il diritto della difesa di accesso alla prova anche se raccolta all’estero: nel caso in cui l’attività di messa in chiaro di messaggi criptati (nella specie scambiati mediante sistema “Blackberry”) sia stata svolta all’estero dal fornitore del servizio fuori dal contraddittorio, la difesa ha diritto di ottenere la versione originale e criptata dei messaggi e le chiavi di sicurezza necessarie alla decriptazione, a pena di nullità ex art. 178, lett. c), cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 49896 del 15/10/2019, Rv. 277949).

 

Va rammentato, al riguardo, che la Corte EDU ha costantemente affermato che, per stabilire l’equità del processo, va verificato se e in quale modalità sia stata data all’imputato la opportunità di accedere alla prova “decisiva” ai fini della condanna.

 

Con riferimento ad un caso in cui era stata compresso il diritto della difesa in relazione a dati raccolti in un “server” di messaggistica crittografata, non consentendo la verifica dei dati grezzi nel loro contenuto e nella loro integrità, la Corte EDU (Grande Camera, sent. 26/09/2023, Yüksel Yalçinkaya c. Turchia) ha affermato che, nonostante le prove elettroniche differiscano sotto molti aspetti dalle prove tradizionali, anche per quanto riguarda la loro natura e le tecnologie speciali richieste per la raccolta, conservazione, trattamento ed analisi, non vi è alcuna ragione per una applicazione differenziata delle garanzie previste dall’art. 6, par. 1, CEDU; che il diritto ad un processo in contraddittorio presuppone quindi che l’autorità inquirente riveli alla difesa tutte le prove, anche quelle “elettroniche” e non solo quelle che l’accusa ritiene rilevanti. Tale diritto non è, tuttavia, assoluto potendo rendersi necessario un suo bilanciamento con interessi concorrenti, quali la sicurezza nazionale o la necessità di mantenere segreti i metodi di indagine dei reati da parte della polizia.

 

Tale bilanciamento può, pertanto, portare a misure restrittive dei diritti della difesa; in tal caso, al fine di garantire un giusto processo, si richiede infatti, entro i soli limiti della stretta necessità, che le limitazioni dei diritti della difesa siano controbilanciate da adeguate garanzie procedurali (cfr. § 308) alla luce «dell’importanza del materiale non divulgato e del suo utilizzo nel processo», e che sia stata data all’imputato “un’opportunità adeguata” per preparare la sua difesa, come richiesto dall’art. 6 della Convenzione.

 

Corte di Cassazione sez. VI del 26 ottobre 2023 n. 44154, dep. 02 novembre 2023

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