La consuetudine di veicolare nel processo penale un parere tecnico attraverso lo schema libero della memoria, è stata messa in (apparente) dubbio dalla prima sezione penale della Cassazione con la sentenza nr. 33435/2023.

Pur in presenza di giuste preclusioni sostanziali, sia la dottrina che la giurisprudenza non hanno mai reso controversa la facoltà riconosciuta alle parti dal combinato disposto degli articoli 121 e 233 cpp.

L’art. 121 c. 1 cpp prescrive che “in ogni stato e grado del procedimento le parti e i difensori possono presentare al giudice memorie o richieste scritte, mediante deposito nella cancelleria”.

L’art. 233 c. 1 cpp stabilisce che “quando non è stata disposta perizia, ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici. Questi possono esporre al giudice il proprio parere, anche presentando memorie a norma dell’articolo 121”.

L’art. 121 c.1 cpp consente alle parti e ai difensori di presentare al giudice in ogni stato e grado del procedimento memorie scritte, aventi carattere e funzione illustrativa delle tesi prospettate dal singolo soggetto processuale e, in quanto tali, connotate dalla più ampia libertà contenutistica. La norma non prescrive, difatti, un contenuto formale dell’atto, per cui rientrano tra le memorie scritte, che le parti e i difensori possono presentare al giudice, anche i pareri di carattere tecnico in ordine ai fatti di causa (Sez. 6, n. 3500 del 23/09/2008, dep. 27/01/2009, P.M. in proc. Rossini, rv. 24252.2).

Quindi, la presentazione di un parere tecnico, con l’unico obiettivo di illustrare le proprie ragioni, deve ritenersi legittima in considerazione della funzione dialogico-argomentativa della memoria, e il fatto che il giudice ne tenga conto è un effetto naturale dell’atto e della rilevanza di fatto delle questioni trattate.

Tale regola vale anche nelle ipotesi in cui sia stata espletata perizia e a prescindere dalla circostanza che il consulente di parte vi abbia partecipato, esercitando i diritti e le facoltà riconosciutegli dall’art. 230 cpp.

L’art. 233 cpp prevede, invece, quando non sia stata disposta perizia, la facoltà di ciascuna parte di nominare propri consulenti tecnici, i quali sono abilitati ad esporre il loro parere al giudice anche presentando memorie a norma dell’art. 121, e ciò in ogni stato e grado del procedimento.

Come evidenziato nella relazione al codice di rito, l’articolo in questione “concreta una previsione del tutto nuova con la quale, nel presupposto che non sia stata espletata perizia, si è inteso realizzare l’esigenza che ciascuna delle parti possa avvalersi di un contributo esterno per l’impostazione e per la soluzione di quesiti tecnici, nella prospettiva, peraltro, di una proiezione di tale contributo nel processo, soprattutto per sottoporre al giudice pareri qualificati idonei ad indurlo a valutare la convenienza di disporre perizia“.

La Corte di Cassazione, sin dalle prime pronunzie seguite all’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha precisato che “i pareri espressi dai consulenti di parte a mezzo di memoria scritta presentata a norma degli artt. 233 e 121 c.p.p. possono essere letti in udienza e possono essere utilizzati ai fini della decisione anche in mancanza del previo esame del consulente, qualora le parti non ne abbiano contestato il contenuto ed il giudice abbia ritenuto superfluo di disporre sostitutivamente una perizia” (Sez. 6, n. 10918 del 17/09/1992, Moussa, rv. 192881; e, con specifico riferimento al giudizio di appello, Sez. 4, sentenza n. 7663/05 del 16 dicembre 2004, Giordano, rv. 230824; Sez. 4, n. 3986/12 del 1° dicembre 2011, Bauzulli, rv. 251746).

La sentenza Maronese (Cass. Pen. Sez. 1 nr. 23789/2005), interamente ripresa da Cass. Pen. Sez. 3 nr. 21018/2014, ha precisato che l’articolo 121 cpp rientra tra le disposizioni volte a dare attuazione alla direttiva della L. 81/1987 che afferma il principio della parità tra accusa e difesa ed attribuisce al pubblico ministero, alle altre parti, ai difensori ed alla persona offesa la facoltà di indicare elementi di prova e di presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento.

La disciplina della memoria, avente carattere e funzione illustrativa delle tesi prospettate dal singolo soggetto processuale e, in quanto tale, connotata dalla più ampia libertà contenutistica, s’inquadra con piena coerenza nell’attuale assetto costituzionale e nel vigente sistema processuale penale, ispirato tendenzialmente allo schema dialogico del metodo accusatorio e al principio di parità dialettica tra le parti, espressione di un diritto alla prova inteso come diritto soggettivo costituzionalmente garantito, in quanto espressione del diritto di azione e di difesa di cui all’art. 24 c. 1 e 2 Cost.

La facoltà delle parti di presentare al giudice memorie o richieste scritte in ogni stato e grado del procedimento, riferendosi al procedimento e non al processo, concerne non solo la fase delle indagini preliminari, ma anche l’udienza preliminare, come si desume dall’art. 421 c. 3 cpp. La disposizione, infatti, prevede che la discussione, all’udienza preliminare, si svolga anche sulla base di atti e documenti preventivamente ammessi dal giudice, diversi da quello contenuto nel fascicolo trasmesso a norma dell’art. 416 c. 2 cpp, il che implica che, nel corso della stessa, documenti pertinenti e memorie ben possano essere prodotti dalle parti e formare oggetto del contraddittorio (Corte Cost. 30.5.1991 n. 238).

In piena sintonia con la sua funzione dialogico-argomentativa, la facoltà di presentare memorie può essere legittimamente esercitata anche nelle successive fasi processuali e non può subire compressioni o limitazioni in conseguenza del tipo di rito prescelto.

Il giudice ha l’obbligo di tenere conto delle memorie nel motivare la decisione, purché quello prodotto sia per l’appunto un parere e non un autonomo accertamento tecnico che vada a modificare la piattaforma cognitiva aggirando le regole del contraddittorio sulla prova.

Con ciò si vuole dire che le osservazioni svolte dal consulente di parte con memoria non devono avere ad oggetto una consulenza tecnica, come tale idonea a costituire prova utilizzabile ai fini della decisione e, dunque, non acquisibile nel giudizio nelle forme dell’art. 121 cpp, salvo che le altre parti prestino il loro consenso; esse devono, pertanto, consistere ed esaurirsi nello svolgimento di argomentazioni di carattere tecnico sul significato probatorio di dati processuali già acquisiti e il giudice è tenuto a considerarle, potendo la loro omessa valutazione incidere sulla completezza e sulla tenuta della motivazione.

Laddove il parere riporti, per estratto o per intero, atti mai acquisiti in sede di giudizio, la produzione e la valutazione del contenuto non è preclusa stante la possibilità, per il giudice, di sterilizzare quelle considerazioni tecniche che traggono alimento da atti inutilizzabili ai fini della decisione (cfr. Cass. Pen. Sez. 3 nr. 43723/2013).

Tali reiterati e condivisibili orientamenti sono stati rinsaldati con la sentenza nr. 44419/2015 della sesta sezione penale della Cassazione.

Secondo la pronuncia richiamata in apertura, “una consulenza tecnica non può essere introdotta ed acquisita come memoria ex art. 121 cpp in violazione delle regole acquisitive tipiche della fase processuale”.

I giudici di legittimità hanno precisato che l’allegazione di una consulenza tecnica non può ritenersi ammissibile dopo l’avvenuta ammissione del rito abbreviato data la caratteristica di giudizio allo stato degli atti; che l’atto di parte consistente in una memoria (art. 121 cpp) va limitato alla parte rappresentativa e valutativa degli elementi di prova già disponibili senza che sia consentita la surrettizia introduzione di un novum di tipo probatorio; che lo statuto ontologico della memoria (art. 121 cpp) è stato descritto in dottrina quale attività diretta a integrare o puntualizzare il significato di elementi di prova già emersi ed acquisiti, senza incidere in alcun modo sulla metodologia di acquisizione probatoria; che il significato del lemma è riconducibile al senso comune di <riportare alla mente> i punti salienti di una attività istruttoria già espletata, servendosi dello strumento della scrittura o di evidenziare aspetti in diritto utili alla propria tesi senza l’introduzione in forme atipiche di una nuova fonte di prova, sia essa di tipo testimoniale o di tipo tecnico.

In verità, il temuto contrasto giurisprudenziale è, come detto, apparente, posto che la pronuncia in commento vieta che le conoscenze disponibili per il giudizio possano lievitare per effetto di un novum probatorio introdotto col raggiro delle norme sulla rituale assunzione della prova.

Appare evidente, dunque, che la facoltà di partecipazione critica, argomentativa e tecnica (“memoria tecnica” ex art. 121 e 233 cpp) sia riconosciuta anche dopo l’ammissione del rito abbreviato purché riguardi il significato probatorio di dati processuali già acquisiti e purché non accresca le conoscenze disponibili per il giudizio.

Altrimenti, ne verrebbe svilito il fine espresso dall’art. 121 cpp che è quello di rendere pienamente operante il sistema accusatorio attraverso la partecipazione di accusa e difesa, su basi di parità, in ogni stato e grado del procedimento.

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Avv. Vincenzo Sorgiovanni (Penalista Foro di Locri)

 

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