La Sesta Sezione penale, in tema di misure cautelari personali, ha affermato che non trova applicazione, nei confronti dell’imputato in stato di libertà, in quanto scarcerato per decorrenza del termine di durata massima, l’ordinanza di sospensione dei termini ex art. 304, comma 2, cod. proc. pen., emessa prima del ripristino della misura (nella specie, in conseguenza dell’annullamento con rinvio del provvedimento dichiarativo della perdita di efficacia della stessa).

La Suprema Corte, con la pronuncia in allegato, ha stabilito che non è applicabile l’ordinanza di sospensione dei termini nei confronti di imputato in stato di libertà (poiché scarcerato per decorrenza del termine di durata massima di custodia cautelare), la quale sia stata emessa prima che la misura sia stata ripristinata.

Nel caso di specie, il Tribunale di Catanzaro, adito ex art. 310 c.p.p., su appello proposto dal Pubblico Ministero, disponeva il ripristino della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’imputato subordinandola alla definitività del provvedimento.

Pertanto, il giudice catanzarese riformava l’ordinanza (oggetto di impugnazione) emessa dalla Corte di appello di Catanzaro a mezzo della quale veniva disposta la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di fase della misura cautelare.

Il Tribunale di Catanzaro evidenziava che la Corte di appello sarebbe incorsa in errore avendo ritenuto non applicabile nei confronti dell’imputato l’ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare quando il medesimo trovavasi in stato di libertà.

E, ancora detto organo giudicante rilevava che la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, in caso di particolare complessità del dibattimento e nel caso in cui si proceda per i reati previsti dalla norma contenuta nell’art. 407, comma secondo, lett. a), c.p.p., opera indistintamente nei confronti di tutti i coimputati del medesimo processo, salvo i casi previsti dalla norma contenuta nell’art. 304, comma 1, lett. a) e b) c.p.p..

In tal senso, il Tribunale, adito ex art. 310 c.p.p., rimarca la diversità intercorrente tra le ipotesi previste dal comma 1 della norma contenuta nell’art. 304 c.p.p. rispetto a quelle previste dai commi 2 e 3 dell’art. 304 c.p.p..

Pertanto, “a parte la necessaria richiesta del pubblico ministero che contrassegna la sospensione ex art. 304, comma 2, cod. proc. pen.”, il fondamento giuridico di tale norma si basa, unicamente, su due presupposti ossia la particolare complessità del dibattimento ed i titoli di reato contestati i quali devono rientrare nella norma contenuta nell’art. 407 c.p.p..

Di tal che, la sospensione, di cui all’art. 304, commi 2 e 3 (presupponendo la complessità del dibattimento o del giudizio abbreviato e facendo astrazione dalle posizioni dei singoli imputati), opera anche nei confronti dell’imputato che sia stato sottoposto a custodia cautelare nel corso del giudizio, dopo l’emissione dell’ordinanza di sospensione.

L’imputato proponeva ricorso per cassazione denunciando, con un unico motivo, l’avvenuta violazione di legge specificando:

  • che, alla data di emissione dell’ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare, l’imputato era libero;
  • che, essendo libero in tale data, non avrebbe potuto impugnare la ridetta ordinanza per carenza di interesse;
  • che tale situazione, nel caso in cui tale ordinanza doveva ritenersi applicabile nei confronti anche di detto imputato, avrebbe determinato una concreta violazione del diritto di difesa stante l’impossibilità di impugnare la suindicata ordinanza;
  • che, infine, il Pubblico Ministero “avrebbe dovuto e potuto richiedere anche nei confronti (dell’imputato libero) la sospensione del termine di durata all’A.G. procedente, così da mettere in condizione il predetto di esercitare il proprio diritto di difesa su tale questione formale da cui dipende la sua libertà personale, essendo, peraltro, anche censurabile la ritenuta complessità del dibattimento”.

Orbene, la Suprema Corte reputava il ricorso fondato sulla base delle argomentazioni, di seguito, indicate.

La questio iuris, analizzata dal Supremo Collegio, attiene la “delimitazione dell’efficacia della ordinanza di sospensione rispetto ai soli imputati detenuti al momento in cui l’ordinanza è stata adottata, o se tale effetto estensivo già affermato per i coimputati detenuti a prescindere dal titolo di reato per cui si procede nei loro confronti, debba valere anche nei confronti dei coimputati che, liberi al momento della emissione dell’ordinanza di sospensione, siano stati successivamente sottoposti alla custodia cautelare in carcere”.

Ciò posto, il giudice di legittimità passa in rassegna due opposti orientamenti giurisprudenziali (riguardanti, nello specifico, il caso di imputato latitante arrestato in esecuzione di un’ordinanza, ma ancora ineseguita al momento della sospensione dei termini di fase della custodia in carcere) secondo i quali:

 

  • il provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare ai sensi dell’art. 304, comma 2, cod. proc. pen. adottato “per tutti gli imputati in stato di custodia cautelare”, non può valere per gli imputati liberi, e ad esso deve necessariamente far seguito altro analogo provvedimento sospensivo nei confronti di quegli imputati, pure attinti dalla medesima misura, ma precedentemente non detenuti, in quanto latitanti” (primo orientamento);
  • l’ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare ex art. 304, comma 2, cod. proc pen., spiega, alla luce dell’interpretazione adeguatrice del succitato art. 304 alla Costituzione, i suoi effetti anche nei confronti dell’imputato latitante, ponendo sin dall’inizio in posizione di parità gli imputati per i quali sia stata disposta la privazione della libertà personale e correlativamente evitando di privilegiare paradossalmente proprio quelli che si siano volontariamente sottratti alla custodia cautelare” (secondo orientamento).

Con riferimento all’orientamento giurisprudenziale indicato sub 1) la ratio è da rinvenirsi nella problematica derivante dalla impugnabilità dell’ordinanza e nella necessità di tutelare il diritto di impugnazione spettante anche all’imputato latitante.

In tal senso “l’ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare ex art. 304 comma 2 c.p.p. postula necessariamente che sia in corso un dibattimento particolarmente complesso nei confronti di imputati “in stato di custodia cautelare”, per i quali soltanto decorrono, dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo, gli effetti della custodia cautelare… (omissis). Per gli imputati i quali, essendosi volontariamente sottratti alla custodia cautelare, versino “in stato di latitanza” gli effetti della custodia cautelare iniziano invece a decorrere solo dal momento della loro eventuale successiva cattura. Di talché sarebbe davvero inutiliter data un’ordinanza sospensiva dei termini previsti dall’art. 303 c.p.p. (nella specie, quelli del giudizio di primo grado), adottata anche nei confronti degli imputati latitanti, ancor prima che i medesimi termini abbiano iniziato a decorrere in forza della “sopravvenuta esecuzione della custodia”.

Di conseguenza, anche l’imputato latitante, arrestato in epoca successiva alla data di emissione dell’ordinanza di sospensione, ha il diritto nonché l’interesse ad impugnare “solo lo specifico provvedimento adottato nei suoi confronti e non anche quello adottato prima del suo arresto, in quanto privo di un interesse attuale e concreto rispetto alla prima ordinanza di sospensione perché inefficace nei suoi riguardi (vedi anche, Sez. 1, n. 3672 del 28/05/1996, Agrigento, Rv. 205152)”.

Invece, in relazione all’orientamento indicato sub 2) il provvedimento di sospensione ex art. 304, comma 2, c.p.p., stante la particolare complessità del dibattimento, non permette al latitante, arrestato successivamente alla emissione della ridetta ordinanza, di far maturare il decorso dei termini ex art. 303 c.p.p. prima della cessazione della causa di sospensione.

La ratio di tale orientamento si fonda “sulla natura oggettiva della causa di sospensione in questione che, in quanto tale, prescinde dalla situazione dei singoli imputati nè può essere alterata dal successivo arresto di uno di essi, sicché una possibile reiterazione del provvedimento di sospensione nei confronti dell’ex latitante si risolverebbe in un mero formalismo (in tal senso vedi, Sez. 6, n. 565 del 17/02/1999, Ficara, Rv. 213084)”.

Ciò posto, la Suprema Corte, accogliendo la tesi del primo orientamento, “delimita l’estensione dell’’ordinanza di sospensione ai soli imputati che siano detenuti al momento della sua adozione”.

Difatti, secondo il Supremo Collegio, l’imputato latitante “destinatario” dell’ordinanza di sospensione dei termini di fase, disposta su richiesta del P.M., non avrebbe alcun interesse attuale ad appellare tale provvedimento attesa l’evidente assenza di effetti e conseguenze dirette nei suoi confronti posto che “la concreta sospensione dei termini di fase soltanto eventuale e futura, significa introdurre una deroga al principio secondo cui l’interesse ad impugnare, da cui dipende l’ammissibilità dell’impugnazione, deve rivestire il carattere dell‘attualità, inteso come eliminazione di un effetto giuridico già verificatosi e non solo futuro ed eventuale”.

Seguendo tale linea argomentativa, la questio iuris dell’imputato latitante è strettamente connessa a quella dell’imputato libero al momento della emissione dell’ordinanza di sospensione dei termini di fase.

Difatti, nel caso di imputato latitante, arrestato dopo la emissione della ridetta ordinanza, la medesima non sarebbe impugnabile (al momento della sua diffusione) “per carenza di un interesse attuale” atteso che il provvedimento in questione avrebbe a oggetto termini che non sono ancora iniziati a decorrere nei suoi confronti.

Inoltre, il vuoto normativo sul punto non permette all’imputato latitante di impugnare l’ordinanza al momento del suo arresto stante l’avvenuta scadenza dei termini di impugnazione tassativamente previsti dalla norma contenuta nell’art. 309 c.p.p..

Di tal che, la problematica attinente l’impugnabilità dell’ordinanza da parte dell’imputato latitante diventa ancor più evidente nel caso di imputato libero al momento della emissione della medesima.

Nel caso di specie, al momento della emissione della suindicata ordinanza, l’imputato risultava libero per decorrenza dei termini massimi e, pertanto, non sarebbe possibile affermare che l’ordinanza di sospensione dei termini (come richiesta dal P.M.) fosse efficace anche nei suoi confronti “risultando già decorso il termine di durata massima e quindi già scarcerato proprio per tale ragione”.

Ciò posto, a differenza del latitante, nel caso di imputato libero non è possibile affermare “che la sospensione possa aver effetto rispetto ad una misura che non solo non è stata ancora disposta, ma che neppure era prevedibile che lo fosse, essendo stato scarcerato per decorrenza dei termini di durata della custodia in applicazione della retrodatazione del termine a norma dell‘art. 297, comma 3, cod. proc. pen.”.

E, ancora, aderendo alla “tesi dell’efficacia estensiva (dell’ordinanza di sospensione) valida nei confronti di tutti gli imputati, anche liberi” non sarebbe possibile:

  • applicare la disciplina avente a oggetto il termine di impugnazione prevista per il latitante (art. 310, comma 3, c.p.p.) la quale ammette la “la riapertura del termine subordinatamente alla prova dell’ignoranza del provvedimento genetico della misura”;
  • permettere all’’imputato in stato di libertà di appellare l’ordinanza stante la carenza di interesse ostativa all’esercizio del relativo diritto ossia quello di interporre gravame.

Conclusivamente argomentando, la Suprema Corte ha disposto l’annullamento senza rinvio della ordinanza impugnata atteso l’errato computo della durata del termine di fase per il giudizio di appello “in conseguenza della estensione al ricorrente della sospensione del termine di fase disposto con l’ordinanza emessa dalla Corte di appello (…) da ritenersi inefficace nei suoi confronti”.

 

Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 46380/2023, ud. 03.10.2023

 

 

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