La Suprema Corte si è pronunciata sulla questione attinente la mancata concessione del differimento pena, anche nelle forme della detenzione domiciliare, da parte del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria nei confronti di un soggetto (condannato in quanto ritenuto “elemento di spicco (di una) associazione di stampo mafioso”) affetto da una grave patologia psichica.

Nel caso di specie, il Tribunale di Sorveglianza rigettava la richiesta superiormente indicata e disponeva la trasmissione della propria ordinanza al DAP al fine di procedere al trasferimento del condannato in una casa di reclusione più vicina al luogo di appartenenza del nucleo familiare e dotata di assistenza psichiatrica 24 ore su 24.

Ancora, il Tribunale rilevava l’assenza nel corpo dell’istanza:

  • della specifica indicazione dei trattamenti terapeutici specifici da applicare al condannato (in libertà);
  • del motivo per cui tali trattamenti (in libertà) sarebbero stati più efficaci di quelli irrorati dentro la struttura detentiva.

Infine, l’organo giudicante riteneva altamente concreto il pericolo di commissione di nuovi reati da parte dell’istante considerato il titolo di reato (art. 416 bis c.p.) in relazione al quale era intervenuta sentenza definitiva di condanna.

Il ricorrente, lamentando la avvenuta violazione delle norme contenute negli artt. 147 c.p. e 47 ter ord. pen. e la mancanza di motivazione del provvedimento impugnato, rilevava che il Tribunale di Sorveglianza aveva “valorizzato eccessivamente la vigenza dell’originario gruppo associativo”, aveva ribaltato l’esito di alcune consulenze d’ufficio a mezzo delle quali il condannato veniva reputato incompatibile con il regime carcerario, non aveva considerato l’elevato arco temporale trascorso dal ristretto presso alcune case di accoglienza e il positivo percorso intrapreso all’interno delle medesime.

La Suprema Corte reputava il ricorso infondato sulla base delle considerazioni, di seguito, indicate.

Primariamente, il Supremo Collegio sottolinea la necessità di procedere a una valutazione di compatibilità delle condizioni di salute del detenuto con il regime carcerario al quale è sottoposto applicando, necessariamente, il c.d. giudizio bifasico.

Tale giudizio richiede:

  1. a) in via primaria l’analisi della patologia, cui è affetto il detenuto, le possibilità di cura e la somministrazione di adeguate terapie presso strutture di detenzione ad hoc attrezzate;
  2. b) in via secondaria, ma non subordinata, che “il grave stato di salute (vada) inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell’art. 11 Ord. Pen. (Sez. 1, n. 37216 del 5/03/2014, Carfora, Rv. 260780; Sez. 1, n. 8936 del 22/11/2000, dep. 2001, Piromalli, Rv. 218229)”.

Pertanto, in presenza di documentazione sanitaria attestante la sussistenza di una situazione di incompatibilità del detenuto con il regime carcerario, il giudice può non accogliere l’istanza di differimento di esecuzione pena ma deve disporre i necessari accertamenti clinici nominando all’uopo un perito.

La valutazione del giudicante deve permettere un adeguato bilanciamento delle “istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute dello stesso (Sez. 1, n. 37062 del 09/04/2018, Acampa, Rv. 273699)” atteso che l’accertata pericolosità sociale del condannato costituisce elemento ostativo alla concessione del differimento di esecuzione della pena.

Nel caso di specie, il Supremo Collegio reputa correttamente applicato il c.d. giudizio bifasico – nel corpo dell’impugnato provvedimento – da parte del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria atteso che l’organo giudicante reggino:

  • ha dato conto di avere effettuato una valutazione in astratto sull’inquadramento nosografico della patologia e sulla sua possibilità di cura in concreto presso le strutture detentive e ha fornito una giustificazione esaustiva, logica e coerente con l’istruttoria” (nel caso di specie il ricorrente lamentava, sulla base di un mero assunto, che la sindrome depressiva determinasse una situazione ontologica di incompatibilità con il regime carcerario);
  • ha adeguatamente motivato in ordine all’elevato grado di pericolosità del condannato neutralizzando le restanti censure difensive afferenti “circostanze di fatto, quali la condotta tenuta nel periodo di custodia cautelare, neppure documentate”.

 

Cass. Pen., sez. I, sent. 46469, ud. 29 settembre 2023 (17 novembre 2023), Pres. Rocchi – Rel. Monaco

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