– La Quinta Sezione penale ha affermato che la condotta sanzionata dal reato di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale, già disciplinato dall’abrogato art. 2624 cod. civ. e attualmente previsto dall’art. 27 d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, ha sempre natura commissiva, anche nel caso in cui si sostanzi nell’occultamento di informazioni, atteso che postula, pur sempre, il compimento di un’azione, consistente nella stesura della relazione.

– La Quinta Sezione penale ha affermato che il reato proprio di falso nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale, disciplinato, all’epoca dei fatti, dall’abrogato art. 2624 cod. civ. (e attualmente previsto dall’art. 27 d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), non può rappresentare ex se una modalità di concorso di persona nei reati, egualmente propri, di bancarotta societaria, di cui all’art. 223, comma secondo, n. 1, legge fall e di false comunicazioni sociali, di cui all’art. 2621 cod. civ.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 47900 della Sezione Quinta Penale, accoglieva i ricorsi presentati dagli imputati avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano, la quale confermava la condanna irrogata nei confronti dei medesimi per aver commesso in concorso il delitto di bancarotta impropria da reato societario – con riguardo al fallimento di una società (dichiarata fallita dal Tribunale di Milano in data 18.11.2010) – e per aver commesso il delitto di cui all’art. 223, comma secondo, n. 1 legge fall. in relazione al reato di falso in bilancio (art. 2621 cod. civ.).

Il ruolo ricoperto dai singoli imputati era il seguente: i primi due avrebbero, quali concorrenti estranei, svolto l’incarico di revisori contabili redigendo le relazioni sui bilanci consolidati e d’esercizio, mentre l’ultimo avrebbe ricoperto il ruolo di presidente del C.d.A. della società fallita nell’arco temporale intercorrente tra il 31.07.2008 e il 10.12.2009.

I primi due ricorrenti ossia i “revisori contabili” lamentavano:

  1. la nullità della sentenza per difetto di correlazione tra accusa e sentenza e conseguente violazione del diritto di difesa atteso che gli imputati, secondo l’imputazione, erano accusati di aver “esposto nei bilanci ordinari fatti non corrispondenti al vero”, di aver “alterato in modo sensibile la situazione economico-patrimoniale-finanziaria”, “non aver adottato i provvedimenti di cui all’art. 2446 cod. civ. o di cui all’art. 2447 cod. civ” e venivano, invece, condannati per aver concorso “per omissione nel reato commesso dagli amministratori e consistita nel: “non aver espresso un giudizio negativo” o comunque nel “non aver esplicitamente rilevato gravi falsificazioni dei bilanci nelle loro relazioni”;
  2. la violazione della norma contenuta nell’art. 606, comma I lett. b), c.p.p. con riguardo alle norme contenute negli artt. 223, comma secondo, n. 1 legge fall. e 2621-2624 cod. civ. posto che il giudice del merito avrebbe erroneamente ricondotto “la responsabilità degli imputati alla fattispecie del concorso omissivo, per inadempimento dell’obbligo di impedire l’evento gravante sui revisori”. Pertanto, l’organo giudicante avrebbe offerto una ricostruzione giuridicamente errata considerato che “l’extraneus potrebbe concorrere nel reato proprio soltanto mediante una partecipazione attiva e non invece ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen..”;
  3. la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato stante la condotta posta in essere da uno dei revisori che avrebbe proceduto alla redazione della relazione finale da reputarsi “non veritiera e, per questo, inattendibile”. Secondo il ricorrente, il falso, nella suindicata relazione, avrebbe determinato l’integrazione del reato previsto, all’epoca dei fatti, dalla norma contenuta nell’art. 2624 cod. civ. trattandosi, pertanto, di fattispecie criminosa distinta e non concorrente con quella prevista dalla norma contenuta nell’art. 2621 cod. civ.. Inoltre, la Corte di appello avrebbero “risolto” la questione “affermando che i revisori concorrono nel reato fallimentare, ma non anche in quello societario presupposto”. Tale ragionamento giudiziale non sarebbe corretto atteso che “il fatto storico che dà luogo al delitto di cui all‘art. 223, comma secondo, n. 1, legge fall. deve sempre identificarsi nella condotta prevista dall’art. 2621, cod. civ.” e che “la condotta di falso nella relazione di revisione costituisce un posterius rispetto alla predisposizione del bilancio, sicché sarebbe causalmente irrilevante”;
  4. la violazione degli artt. 25, 111, 117 Cost., 7 e 81 CEDU, 14 preleggi, 2621, 2624, cod. civ., 1, 2 e 110 cod. pen., atteso che il riconoscimento, nel corpo della sentenza impugnata, del “concorso dei revisori per falsità in bilancio” avrebbe determinato il verificarsi di una vietata interpretazione in malam partem della norma penale;
  5. la violazione di legge con riguardo all’ elemento psicologico del reato atteso che il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente considerato perfettamente integrato il reato complesso di bancarotta societaria pur in assenza di prova in relazione alle necessarie componenti oggettive e soggettive del delitto presupposto di falso in bilancio;
  6. la avvenuta configurazione del dolo “al cospetto di meri profili di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e regolamenti”;
  7. l’entità (spropositata) della pena irrogata senza una adeguata motivazione giudiziale sul punto.

L’ultimo ricorrente ossia “presidente del C.d.A.” della società fallita lamentava:

  • difetto e contraddittorietà della motivazione con specifico riguardo all’elemento soggettivo del reato contestato;
  • il mancato giudizio di bilanciamento in termini di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle ritenute aggravanti stante la marginalità della condotta dell’imputato nell’intera vicenda.

Il Supremo Collegio reputava i ricorsi fondati sulla scorta delle argomentazioni logico-giuridiche, di seguito, indicate.

Primariamente, la Suprema Corte rileva che “i fatti-reato ricadono ratione temporis nell’alveo della disciplina dell’attività di revisione anteriore alla riforma di cui al d. lgs. n. 39 del 2010” collocandosi, pertanto, “nella formulazione dei reati societari anteriore alle modifiche introdotte con il d. lgs. n. 69 del 2015” (e) riguardano, infine, nel caso di specie, una società non quotata in borsa.

Partendo dalla bancarotta societaria, secondo il Supremo Collegio, devesi rilevare:

  • che la norma contenuta nell’art. 223, comma secondo, n. 1, legge fall. “punisce gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile”;
  • che, pertanto, la condotta penalmente rilevante e il reato in questione richiede “la partecipazione di almeno un soggetto rientrante nelle categorie codificate dalla norma” e che, di conseguenza, “l’extraneus (es. dipendente, collaboratore, professionista esterno) può concorrere nel reato con il soggetto qualificatosolo nel caso in cui apporti un consapevole contributo morale o materiale ai fini del perfezionamento del fatto illecito;
  • che i reati societari suindicati (artt. 2621, 2622, etc…) “rappresentano un elemento costitutivo della fattispecie di bancarotta in esame (cfr. Sez. 5, n. 37264 del 19/06/2023, Austa, n.m.)”;
  • che, invece, “i fatti di falso in bilancio seguiti dal fallimento della società non costituiscono un’ipotesi aggravata del reato di false comunicazioni sociali, ma integrano l’autonomo reato di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario (Sez. 5, n. 15062 del 02/03/2011, Siri, Rv. 250092)”;
  • che la configurabilità del reato societario è possibile solo nel caso in cui si siano perfezionate “tutte le sue componenti oggettive e soggettive”;
  • che, trattasi di reato di evento, nel senso che “a differenza delle ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria di cui al primo comma dell’art. 223 legge fall., che sono reati di pericolo, nella fattispecie in rassegna il dissesto è evento del reato che, come tale, deve essere causalmente ricollegabile ai reati presupposti e investito del necessario elemento soggettivo”;
  • che, con riferimento all’elemento oggettivo, è stato più volte ribadito che “integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l’evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto (tra le altre Sez. 5, n. 42811 del 18/06/2014, Ferrante, Rv. 261759; Sez. n. 1754 del 20/09/2021, dep. 2022, Bevilacqua, Rv. 282537)”;
  • che, invece, sotto il profilo soggettivo si è affermato che “in tema di bancarotta impropria da reato societario, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (tra le altre Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv. 252804; Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, Solignani, Rv. 260356Sez. 5, n. 35093 del 04/06/2014, Sistro, Rv. 261446; Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Nicosia, Rv. 274449)”.

Ciò posto, la Suprema Corte passa in rassegna la questione attinente la responsabilità penale dei revisori precisando che tali soggetti non rientrano nel novero dei c.d. “soggetti qualificati” previsti dalla norma contenuta nell’art. 223 legge fall..

Di tal che, può rispondere di tale reato (ossia quello di bancarotta societaria) anche il revisore, in qualità di extraneus, ma unicamente a titolo di concorso.

In tal senso, il Giudice di legittimità richiama l’importante pronunciamento, afferente l’evoluzione normativa dello statuto penale dei revisori, come stabilito delle Sezioni Unite “Deloitte Touche spa (n. 34476 del 23/06/2011)” ribadendo che , all’epoca dei fatti, l’attività del revisore era disciplinata dalla norma contenuta nell’ art. 2409-ter cod. civ., mentre la falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione era sanzionata dalla norma contenuta nell’art. art. 2624 cod. civ..

Il passaggio argomentativo, da ultimo indicato, non è di poco conto atteso che i fatti contestati ai ricorrenti sono antecedenti al d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39.

Difatti, la norma contenuta nell’art. 2624 cod. civ., “qui in rilievo ratione temporis, al primo comma

prevede(va) una ipotesi contravvenzionale di reato “proprio”, di pericolo (Sez. 5, n. 23449 del 21/05/2002, Fabbri, Rv. 221920), assistita da dolo specifico e intenzionale, consistente nel fatto dei responsabili della revisione che, nelle relazioni o in altre comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione. Il secondo comma invece punisce, come delitto, la medesima condotta ove produttiva di un evento dannoso: aver cagionato un danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni. Il falso deve cadere sulla relazione (che costituisce ‘oggetto specifico del reato), nonché su “altre comunicazioni” non meglio specificate e di non agevole individuazione.

La condotta può realizzarsi sia affermando il falso sia occultando informazioni vere. Si parla, nella seconda ipotesi, di “falso per omissione”, ma è bene chiarire sin d’ora che, al di là della terminologia utilizzata, viene in rilievo, comunque, una condotta che giuridicamente deve definirsi “attiva” e non “omissiva”, poiché si concreta sempre e comunque in una azione: la stesura della relazione. L’art. 2624 cod. civ. assegna(va) una precisa valenza penale al falso ideologico commesso dal revisore come disposizione che da un lato serve a rafforzare, dall’esterno, la tutela della correttezza e trasparenza delle informazioni a presidio degli interessi patrimoniali della società e dei soci e, dall’altro, ne costituisce anche il limite; nel senso che, come osservato dalle difese, la scelta del legislatore è chiara: i revisori non sono soggetti qualificati del falso in bilancio (pur potendovi concorrere ai sensi dell’art. 110 cod. pen.); il falso nelle relazioni di revisione si colloca al di fuori del perimetro del reato di falso in bilancio punito dai precedenti artt. 2621 e 2622 cod. civ.”.

Orbene, nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato:

  • che le condotte accertate e contestate agli imputati attengono, con riguardo alla formulazione delle relazioni degli anni tra il 2005 e il 2008, la redazione di false attestazioni di regolarità dei bilanci e l’omissione di informazioni rilevanti sulla situazione economica, patrimoniale o

finanziaria della società;

  • che, pertanto, la condotta contestata è di natura attiva e non omissiva posto che “nei reati di falso l’omissione non può riguardare l’atto nella sua interezza (e nella specie non l’ha riguardata) assumendo rilevanza l’omissione che riguardi un singolo enunciato significativo di un atto che tuttavia, nel suo complesso, deve essere formato (cfr. Sez. 5, n. 9192 del 23/09/1996, Benussi, Rv. 205942)”;
  • che i giudici di merito hanno rinvenuto la riferita omissione capovolgendo la condotta attiva avendo affermato che “aver omesso di redigere una relazione veritiera significa aver redatto una relazione falsa; “non aver espresso un giudizio negativo” vuol dire aver espresso un giudizio positivo sapendolo falso”;
  • che i medesimi hanno alterato totalmente il binomio tra fattispecie astrattamente contestata e situazione accertata in concreto.

Quanto, invece, ai “rapporti tra art. 2621 e art. 2624 cod. civ.”, si rileva che “la fattispecie del falso nelle relazioni dei revisori non ha attinenza né con l‘art. 2621 cod. civ. né con l’art. 223 comma secondo, n. 1, legge fall.” e, pertanto, non può costituire una forma di concorso nei reati propri dianzi indicati stante l’evidente rischio di violazione dei principi di legalità e di tipicità della fattispecie.

Ciò posto, il revisore può comunque fornire un apporto all’autore c.d. “qualificato” nella commissione del rato di falso in bilancio, ma la propria condotta rientrerà pur sempre nell’alveo della norma contenute nell’art. 110 c.p. “non attraverso una non consentita combinazione di altre norme incriminatrici, foriera di inammissibili scorciatoie probatorie” considerato che “nel caso di concorrente morale, il contributo causale può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa  che impongono al giudice di merito un obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101)”.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza nei confronti dei c.d. “revisori contabili” stante l’evidente vuoto probatorio non più colmabile con un eventuale “giudizio di rinvio”.

E’ stato, invece, disposto l’annullamento con rinvio della sentenza nei confronti del c.d. “presidente del C.d.A.” stante l’erroneità dell’impianto motivazionale di merito che ha, totalmente, escluso ogni forma di analitico esame del profilo soggettivo del reato in questione considerato che “il pregiudizio interessato dal dolo del reato fallimentare «non sempre coincide con la volontà di danno supposto dalla norma penal/societaria, sicché non necessariamente la dimostrazione del dolo specifico del reato societario esaurisce l’onere probatorio sul momento soggettivo della bancarotta di cui all’art. 223, comma secondo, n. 1 legge fall.» (così in motivazione Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi)”.

Conclusivamente argomentando si è, difatti, già avuto “avuto modo di chiarire che nel reato di bancarotta impropria da reato societario di falso in bilancio, l’elemento soggettivo presenta una struttura complessa comprendendo – oltre alla consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico – il dolo generico (avente ad oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico (profitto ingiusto) ed il dolo intenzionale di inganno dei destinatari (Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Coatti, Rv. 268673 – 01)”.

 

Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 47900, ud. 13.10.2023, dep. 30.11.2023

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