Reato di cui all’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 convertito, con modificazioni, in legge n. 26 del 2019 – Omesse o false indicazioni dei dati riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza – Rilevanza – Condizioni.

La Terza Sezione, con ordinanza n. 2588 datata 11 ottobre 2022, ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: “Se le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’auto dichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza integrino il delitto di cui all’art. 7 del d. I. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito in I. 28 marzo 2019, n. 26, indipendentemente dall’effettiva sussistenza o meno delle condizioni patrimoniali stabilite per l’ammissione al beneficio”.

Le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: “Le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza integrano il delitto di cui all’art. 7 dl, 28 gennaio 2014 n. 4, conv. in legge 28 marzo 2019 n. 26 solo se funzionali ad ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge”.

La Corte d’appello di Salerno confermava la sentenza emessa dal G.U.P. presso il Tribunale di Nocera Inferiore che aveva condannato l’imputato alla pena di anni due e mesi due di reclusione poiché incolpato del reato previsto dalle norme contenute negli artt. 81, secondo comma, c.p. 640, secondo comma, n. 1, c.p., 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26) per avere “con artifici e raggiri (…) falsamente (attestato), nella dichiarazione sostitutiva unica (DSU) presentata ai fini ISEE, un valore del proprio patrimonio immobiliare inferiore a quello reale, (e indotto) in errore l’INPS che gli erogava, in forza di tale dichiarazione, la somma di euro 4.431,78 a titolo di integrazione del reddito familiare riferito all’anno 2019, così procurandosi l’ingiusto profitto derivante dalla indebita percezione del sussidio (ossia del) beneficio economico di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), dl. n. 4 del 2019 (reddito di cittadinanza)

La Corte di appello, accogliendo la tesi accusatoria, motivava rappresentando cheil perfezionamento della fattispecie delittuosa di cui all’art. 7, cit., si realizza per il solo fatto di avere portato all’attenzione dell’amministrazione erogatrice del reddito di cittadinanza dati non veritieri (…), a nulla rilevando la circostanza, prospettata dalla difesa, che la dichiarazione parzialmente non veritiera non aveva alterato i termini economici dei limiti reddituali per l’ottenimento del beneficio.

Ciò posto, l’imputato, tramite ricorso per Cassazione avverso la ridetta sentenza, lamentava:

  • la violazione degli artt. 7 d.l. n. 4 del 2019, 42 e 43 c.p. e vizio di motivazione stante l’assenza dell’elemento soggettivo del reato contestato e, soprattutto, l’inesistenza di una prova idonea a ritenere che l’intendimento del ricorrente fosse quello di ottenere, per il tramite della falsa dichiarazione, un beneficio non dovuto (nel caso di specie, anche dichiarando il valore dell’immobile omesso, l’imputato avrebbe, comunque, avuto diritto al sussidio);
  • il fatto che la sentenza avesse messo “in diretta correlazione l’incompleta dichiarazione ISEE

 con il fine di ricevere il reddito di cittadinanza, senza aver compiuto i necessari       approfondimenti in ordine alla consapevolezza e volontarietà della contestata condotta mendace” e che il pronunciamento giudiziale non avesse tenuto conto della interpretazione della norma  offerta dalla Corte di Cassazione, la quale, in un caso analogo “ha ritenuto che la rilevanza penale della condotta, dovendosi informare al principio dell’ offensivita’ concreta, sussista solo quando l’intenzione dell’agente sia quella di conseguire, attraverso dichiarazioni false o incomplete, un beneficio altrimenti non dovuto”;

  • la violazione dell’art. 640, secondo comma, n. 1, c.p., e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli artifici e dei raggiri posto che la presentazione della dichiarazione ISEE non determina l’automatica erogazione del sussidio essendo necessaria una preventiva attività di verifica da parte dell’amministrazione la quale non sarebbe mai potuta incorrere in alcun errore azionando i poteri normativamente concessi (istruttoria, accoglimento o rigetto della domanda);
  • la violazione dell’art. 177 c.c. e il vizio di motivazione posto che “la mancata menzione delle quote in comproprietà con il coniuge non può costituire omissione rilevante, trattandosi di beni che non rientrano nel patrimonio personale del dichiarante” e su tale punto né il G.U.P. né la Corte di Appello hanno fornito specifica motivazione.

La Terza Sezione penale, con ordinanza n. 2588 datata 11 ottobre 2022, rilevava l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale rimettendo la questione posta ai punti sub 1) e 2) del ricorso alle Sezioni Unite.

Primariamente, devesi rilevare che l’ordinanza sottolinea che, in caso di presentazione della richiesta per l’ottenimento del reddito di cittadinanza, possono verificarsi le seguenti situazioni:

  1. a) commissione di un “mendacio per totale assenza di requisiti”;
  2. b) commissione di un “mendacio finalizzato al conseguimento di un beneficio maggiore rispetto al dovuto”;
  3. c) commissione di un “mendacio che non incide sul diritto a ottenere il sussidio né sull’ammontare del beneficio”.

Ciò posto, secondo un primo indirizzo di legittimità, “integrano il delitto in esame le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza, indipendentemente dalla sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio”.

Secondo un secondo indirizzo, “il delitto è configurabile solo quando le condotte di mendacio siano finalizzate a conseguire il beneficio del reddito di cittadinanza e il richiedente in concreto non ne abbia diritto o ne abbia diritto in misura minore. Sarebbero, pertanto, penalmente rilevanti le false dichiarazioni solo nel caso in cui la percezione del sussidio risulti indebita nell’an o nel quantum”.

Orbene, la questione di diritto (oggetto dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite) è stata la seguente: “Se le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’auto dichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza integrino il delitto di cui all’art. 7 del d. I. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito in I. 28 marzo 2019, n. 26, indipendentemente dall’effettiva sussistenza o meno delle condizioni patrimoniali stabilite per l’ammissione al beneficio”.

Le Sezioni Unite si soffermano, preliminarmente, sulla regolamentazione del reddito di cittadinanza, sulla sua finalità sociale, sulle condizioni di ammissione al beneficio, sulle modalità di redazione, di comunicazione della domanda per l’ottenimento del ridetto beneficio all’Ente preposto, di erogazione (in caso di esito positivo della relativa istruttoria) e, infine, sui casi di revoca e di decadenza.

Ciò posto, la Corte rileva che, in tale contesto normativo, si inseriscono i reati previsti dalla norma contenuta nell’art. 7, commi 1 e 2 (cfr. art. 7 d.l. n. 4 del 2019: “1. Salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di  cui  all’articolo  3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi  o  attestanti  cose non vere,  ovvero  omette  informazioni  dovute,  e’  punito  con  la reclusione da due a sei anni.  2. L’omessa  comunicazione  delle  variazioni  del  reddito  o  del patrimonio, anche se provenienti da attivita’ irregolari, nonche’  di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della  revoca  o  della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’articolo 3,  commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, e’ punita con la reclusione da uno  a  tre anni”) sottolineando, però, che a decorrere dall’1 gennaio 2024, tale fattispecie incriminatrice verrà abrogata dall’art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, ha abrogato l’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 (n.d.r. alla data di deposito della sentenza in esame “la fattispecie incriminatrice è, perciò, tutt’ora in vigore).

E, ancora, assume decisivo rilievo il passaggio argomentativo, di seguito, indicato.

Difatti, il legislatore “nell’introdurre il cd. «assegno di inclusione» (misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale destinata a sostituire integralmente il Rdc e definita dall’art. 1, comma 1, decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, «quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro»), ha contestualmente ed espressamente previsto che al Rdc continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023”.

Ciò posto, le Sezioni Unite passano in rassegna i due orientamenti contrapposti nella subiecta materia.

Secondo il primo orientamento, “integrano il delitto di cui all’art. 7, comma 1, dl. n. 4 del 2019, le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del “Reddito di cittadinanza”, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio” (cfr. Sez. 3, n. 5289 del 25/10/2019, dep. 2020, Sacco, Rv. 278573 e Sez. 3, n. 5290 del 25/10/2019, dep. 2020, Sciortino, non mass., e successivamente ribadito da Sez. 2, n. 2402 del 05/11/2020, dep. 2021, Giudice, non mass.; Sez. 3, n. 33808 del 21/04/2021, Casà, non mass.; Sez. 3, n. 33431 del 09/09/2021, Sferlazza, Rv. 281814, non mass. sul punto; Sez. 3, n. 30303 del 15/09/2020, Colombo, non mass.; Sez. 3, n. 5309 del 24/09/2021, Iuorio, non mass.).

Tale indirizzo pone la propria attenzione sulla applicazione e il rispetto del c.d. “principio antielusivo” che trova le sue basi sul principio della capacità contributiva (art. 53 Cost.) e sul principio di uguaglianza (art. 3 Cost.).

La ratio della norma incriminatrice, secondo tale orientamento, si fonda sul rispetto del “dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico”.

Pertanto, al di là dell’accertamento compiuto dall’organo preposto, incombe sul cittadino una “leale cooperazione” con l’amministrazione.

Per tali ragioni, il reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019 n. 4 è “un reato di condotta e di pericolo, in quanto diretto a tutelare l’amministrazione contro mendaci e omissioni circa l’effettiva situazione patrimoniale e reddituale da parte dei soggetti che intendono accedere o già hanno fatto accesso al “reddito di cittadinanza” (Sez. 3, Iuorio)”.

Tale orientamento poggia le proprie basi sul dualismo esistente tra la fattispecie incriminatrice prevista dalla norma contenuta nell’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019 n. 4 e quella prevista dalla norma contenuta nell’art. 95 d.P.R. 115 del 2002.

Il nucleo essenziale di tale ragionamento si fonda sulla falsità, ex se, delle dichiarazioni anche se parziali e anche se non incidenti ai fini dell’ottenimento del beneficio.

È la commissione del mendacio, indipendentemente dalla propria natura e dalla gravità del medesimo, a determinare tanto la violazione dell’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 (conseguimento contra legem del beneficio del c.d. “reddito di cittadinanza”) quanto dell’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 (conseguimento contra legem del beneficio al patrocinio a spese dello Stato) (cfr. “Sez. 3, Sacco, la disciplina fissata dall’art. 7 d.l. n. 4 del 2019, non si differenzia in maniera essenziale da quella dell’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, in quanto entrambe appaiono dirette a sanzionare la violazione del dovere di lealtà del cittadino verso l’amministrazione che eroga una provvidenza in suo favore e non prevedono, perciò, la necessità di accertare la sussistenza in concreto dei requisiti reddituali di legge”).

Il reato risulterà configurato ogni qualvolta sia stato commesso un mendacio sia in relazione alla totale assenza dei requisiti previsti ex lege per l’accesso al beneficio sia quando sia stato commesso un mendacio seppur “non incidente sul diritto a ottenere il sussidio né sull’ammontare del beneficio”.

Secondo un opposto orientamento (cfr. Sez. 3, n. 44366 del 15/09/2021, Gulino, Rv. 282336-01, e ribadito da Sez. 2, n. 29910 del 08/06/2022, Pollara, Rv. 283787), invece, integrano il delitto di cui all’art. 7 d.l. n. 4 del 2019, soltanto le false indicazioni o le omissioni strumentali al conseguimento del beneficio cui altrimenti l’agente non avrebbe diritto.

Tale indirizzo reputa erroneo il dualismo – effettuato dal primo orientamento giurisprudenziale – tra la fattispecie incriminatrice prevista dalla norma contenuta nell’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 e quella prevista dalla norma contenuta nell’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002.

In tal senso, devesi evidenziare che “in caso di falsità delle (o omissioni nelle) dichiarazioni sostitutive di certificazione ovvero nelle altre dichiarazioni cui la disposizione fa riferimento, l’art. 95 d.P.R. n. 115, cit., mai richiama, come invece espressamente prevede l’art. 7 dl. n, 4 del 2019, il fatto che attraverso tali falsità od omissioni si sia perseguito il fine di accedere “indebitamente” ad un beneficio. Con tale avverbio, si osserva, il legislatore ha inteso fare riferimento non tanto ad una volontà di accesso al beneficio messa in atto non iure, in assenza, cioè, degli elementi formali che ne avrebbero consentito l’erogazione, quanto ad una volontà diretta ad un conseguimento di esso contra jus, in assenza, cioè, degli elementi sostanziali per il suo riconoscimento; il riferimento alla natura indebita del beneficio sottende, appunto, secondo Sez. 3, Gulino, la mancanza degli elementi per la instaurazione del rapporto “obbligatorio” sostanziale a carico dello Stato. Ragionando diversamente si giungerebbe alla conseguenza di sanzionare penalmente la violazione di un obbligo privo di concreta offensività, laddove, si osserva, appare più in linea con il principio di necessaria offensività del reato ritenere che con l’espressione «al fine di ottenere indebitamente il beneficio» il legislatore abbia inteso tipizzare in termini di concretezza il pericolo che potrebbe derivare dalla falsità delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del reddito di cittadinanza. La rilevanza penale della condotta sussiste, pertanto, nei soli casi in cui l’intenzione dell’agente sia quella di conseguire un beneficio altrimenti non dovuto. In linea con la sentenza Gulino, Sez. 2, Pollara, cit., precisa che il dolo specifico richiesto al fine dell’integrazione del reato di cui all’art. 7 d.l. n. 4, cit., non può ridursi alla verifica dell’atteggiamento psicologico tenuto dal soggetto agente, indipendentemente dalla idoneità della condotta nel perseguire l’obiettivo descritto dalla norma (l’indebito ottenimento della prestazione), risultando più aderente ad una concezione del principio di offensività, coerente con i canoni costituzionali, una lettura della fattispecie incriminatrice in termini di reato di pericolo concreto, dovendosi apprezzare la capacità della condotta ad incidere sulla rappresentazione falsata e astrattamente idonea ad attribuire all’agente il possesso di requisiti mancanti per fruire della misura in esame. Il dolo specifico assolve, nella presente fattispecie e coerentemente con una delle sue funzioni tipiche, il compito di restringere l’area della penale rilevanza alle sole condotte finalizzate all’ottenimento di un beneficio altrimenti non dovuto. Il nesso funzionale tra le condotte lato sensu fraudolente e l’effettiva indebita percezione del contributo economico trova conferma – secondo Sez. 2, Pollare – anche nel sistema dei controlli e delle verifiche delle istanze di accesso alla misura, atteso che l’obbligo di trasmissione all’autorità giudiziaria della documentazione amministrativa contenente i risultati delle verifiche condotte, posto a carico dei soggetti pubblici cui è affidata tale attività di vigilanza, è previsto per le ipotesi in cui dalle comprovate dichiarazioni mendaci sia derivato il «conseguente accertato illegittimo godimento del Rdc» (art. 7, comma 14, d.l. n. 4 del 2019).

Orbene, le Sezioni Unite condividono le argomentazioni giuridiche del secondo orientamento giurisprudenziale.

In tal senso, secondo le SS UU, il dualismo (o parallelismo), invocato dal primo orientamento, tra la norma contenuta nell’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 e quella contenuta nell’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 non convince.

Difatti, dalla semplice analisi dell’elemento psicologico delle due differenti fattispecie incriminatrici è possibile notare come il dolo richiesto, con riferimento alla fattispecie criminosa di cui all’art. 7 d.l. 4 del 2019, è quello generico, mentre il dolo richiesto, in relazione alla fattispecie ex art. 95 d.P.R. 115 del 2002, è quello specifico.

Altri imponenti elementi di divergenza che hanno indotto le Sezioni Unite a non condividere la tesi fondante il primo orientamento trovano ragione nel fatto:

  • che “la falsità nella dichiarazione sostitutiva di cui all’art. 79, comma 1, lett. c), penalmente sanzionata dall’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, inoltre, è correlata alla ammissibilità dell’istanza, non a quella del beneficio richiesto (così, in motivazione, Sez. U, n. 6591 del 27/11/2008, dep. 2009, Infanti, cit.)” mentre “le falsità e le omissioni sanzionate dall’art. 7, d.l. n. 4 del 2019, riguardano invece i requisiti di ammissione e mantenimento del beneficio” (profilo strutturale);
  • che i contesti procedimentali nei quali i due reati sono collocati divergono profondamente tra di loro (profilo procedimentale).

E, ancora, devesi rammentare che i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità tendono a discostarsi dall’ “eccessivo rigore del principio affermato da Sez. U, Infanti”.

Difatti, “in caso di oggettiva sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio”, si richiede “che il dolo generico del reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, venga rigorosamente provato (Sez. 4, n. 35969 del 29/05/2019, Arlotta, Rv. 276862-01; Sez. 4, n. 4623 del 15/12/2017, dep. 2018, Rv. 271949-01; Sez. 4, n. 45786 del 04/05/2017, Bonofiglio, Rv. 27 1051- 01; Sez. 4, n. 21577 del 21/04/2016, Bevilac:qua, Rv. 267307-01).

D’altronde, sono state le stesse Sezioni Unite, con sentenza n. 14723 del 19/12/2019, dep. 2020, Pacino, ad aver affermato il principio di diritto secondo il quale “la falsità o l’incompletezza della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista dall’art. 79, comma 1, lett. c) d.P.R. n. 115 del 2002, non comporta, qualora i redditi effettivi non superino il limite di legge, la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dagli artt. 95 e 112 d.P.R. n. 115 del 2002.”

Ciò posto, non convince un altro punto essenziale del primo orientamento ossia “la   teorizzazione di un «dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico»”.

Il “dovere di lealtà” rischia di divenire il frutto di una sorta di corrispettivo che il cittadino deve fornire rispetto aun beneficio “graziosamente” concessoal medesimo da parte dello Stato.

Tale visione annichilirebbe la natura di un diritto riconosciuto ex lege in base a dati oggettivi e verificabili e, al contempo, ridurrebbe “il bene giuridico tutelato dall’art. 7 d.l. n. 4 del 2019, a vuoto guscio privo di sostanza concreta che attrae a sé, rendendoli punibili, anche fatti del tutto inoffensivi”.

Il rischio di una violazione effettiva del principio di necessaria offensività “costituzionalizzato dal combinato disposto di cui agli artt. 3, 13, primo, secondo e terzo comma, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., ed espressamente riconosciuto anche dal legislatore ordinario (…) pone un limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore in materia di previsione delle fattispecie penalmente rilevanti”.

In tal senso, la Corte Costituzionale ha sancito, in più occasioni, che:

  • “il principio di offensività opera ininterrottamente «dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale» (Corte cost, sent. n. 263 del 2000; ordinanza n. 30 del 2007; nello stesso senso anche Corte cost. sentenze n. 360 del 1995, n. 247 del 1997, n. 133 del 1992, n. 333 del 19’91, n. 144 del 1991)”;
  • “il principio di offensività «opera su due piani distinti. Da un lato, cioè, come precetto rivolto al legislatore, diretto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività ‘in astratto”); dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività “in concreto”)» (Corte cost., sentenza n. 139 del 2023, che richiama le sentenze n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 263 del 2000, cit., e n. 360 del 1995)”;
  • “il principio di offensività in astratto non implica che l’unico modello, costituzionalmente legittimo, sia quello del reato di danno. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore optare per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, individuare la soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenze n. 211 del 2022, n. 141 del 2019, n. 109 del 2016 e n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 201.9, n. 109 del 2016, n. 247 del 1997, n. 360 del 1995, n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991)”.

Conclusivamente argomentando le Sezioni Unite ribadiscono che il reato di cui all’art. 7 d.l. n. 4 del 2019, è reato di pericolo concreto a consumazione anticipata volto a tutelare le risorse pubbliche economiche destinate a finanziare il Rdc (o altri sussidi) impedendone la dispersione a favore di chi non ne ha (o non ne ha più) diritto o ne ha diritto in misura minore.

La tesi dianzi esposta trova ragione:

  • nel fatto chel’interpretazione dell’avverbio “indebitamente”determina una qualificazione dell’elemento psicologico del reato, ex art. 7 d.l. n. 4 del 2019, nell’alveo del dolo specifico;
  • nel rapporto tra il reato di cui al primo comma dell’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 e quello di cui al secondo comma atteso che “l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, nonché delle altre informazioni dovute ai fini della revoca o della riduzione del beneficio è penalmente sanzionata, purché i dati non comunicati siano rilevanti” mentre “l’omessa comunicazione di dati non rilevanti costituisce puramente e semplicemente un fatto atipico che non reca alcuna offesa al patrimonio e agli interessi pubblici dell’ente erogante”;
  • nel fatto che “il minimo comune denominatore di entrambe le fattispecie penali, quella di cui al primo comma e quella di cui al secondo comma dell’art. 7 dl. n. 4 del 2019, è dunque costituito dal patrimonio (o dalle risorse economiche) dell’ente e dal fine che con il suo utilizzo si intende perseguire. Il patrimonio non rileva come bene di proprietà ma come strumento per il raggiungimento di determinati obiettivi; non rileva l’aspetto statico, bensì quello dinamico: sullo sfondo s’intravede l’interesse pubblico leso (anche solo potenzialmente) dall’azione di chi sottrae risorse per perseguirlo”.

Infine, sempre con riferimento all’elemento psicologico del reato de qua, la previsione del dolo specifico (con riferimento alla fattispecie incriminatrice in questione) è il frutto dello specifico intendimento del legislatore di proporre una specifica forma di tutela fin dal momento della proposizione della domanda per l’ottenimento fraudolento del beneficio.

Il dolo specifico funge da spartiacque tra “condotte penalmente rilevanti e quelle che tali non sono, estromettendo dalla fattispecie quelle insuscettibili di mettere in pericolo il bene protetto”.

Sulla scorta delle considerazioni di carattere giuridico dianzi indicate, è stato, pertanto, affermato il principio di diritto secondo il quale “Le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza integrano il delitto di cui all’art. 7 dl, 28 gennaio 2014 n. 4, conv. in legge 28 marzo 2019 n. 26 solo se funzionali

ad ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge”.

Di conseguenza, le Sezioni Unite hanno reputato fondato il primo motivo di ricorso e, sulla base del principio dianzi esposto, hanno annullato con rinvio l’impugnata sentenza.

 

Cass. Pen., Sez. U, sent. num. 49686 Anno 2023

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