In tema di impugnazioni, la mancanza di una o di più pagine nell’originale e nelle copie del ricorso per cassazione non ne comporta la nullità, in assenza di una specifica sanzione processuale, dovendosi, peraltro, considerare l’atto valido, in applicazione del principio di conservazione, limitatamente alle parti in cui siano comprensibili i motivi di gravame. (In motivazione, la Corte ha altresì precisato che il giudice di legittimità è esonerato dall’esame di eventuali doglianze articolate nelle pagine mancanti, senza alcun obbligo di ricostruzione o di rielaborazione del motivo).

La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, è intervenuta sul tema afferente la possibilità di ritenere o meno la sussistenza di un’ipotesi di nullità nel caso di deposito di un ricorso per cassazione privo di una o più pagine sia nel corpo del ricorso originale sia all’interno delle copie del medesimo.

Nel caso di specie, il ricorrente impugnava una sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli con la quale era stata confermata la sentenza di condanna (pena: anni 1 e mesi 8 di reclusione previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche) emessa dal giudice di primo grado nei confronti dell’imputato poiché ritenuto responsabile del reato previsto dagli artt. artt. 2 e 7 L. 2 ottobre 1967, n. 895 (con la recidiva reiterata specifica).

Ciò posto, il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato presentava un’anomalia atteso che risultava mancante la pagina del 6 dell’atto di gravame.

La Suprema Corte ha, preliminarmente, rilevato che l’incompletezza dell’atto non determina la nullità del medesimo non essendo prevista una specifica sanzione processuale sul punto.

La Corte di Cassazione ha, però, precisato che in applicazione del principio di conservazione degli atti processuali il ricorso mantiene la sua “validità” nelle parti in cui siano, comunque, esposti in modo chiaro i motivi di doglianza.

Invece, i Giudici di legittimità hanno sottolineato che, in caso di doglianze articolate nelle pagine mancanti, i medesimi (ossia i giudici) non sono obbligati alla ricostruzione o alla rielaborazione del motivo anche quando, dall’intera lettura e disamina del ricorso, sia possibile comprendere la natura del motivo di doglianza sollevato dal ricorrente.

In tal senso, la Corte ribadisce due principi di diritto – statuiti dalla giurisprudenza di legittimità – secondo i quali:

  • non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (ex multis, Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Caniello, Rv. 256340 – 01)”;
  • in tema di impugnazioni, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l’annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all’omissione può porre rimedio, ai sensi dell’art. 619 cod. proc. pen., la Corte di cassazione quale giudice di legittimità (ex multis, Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell’Utri, Rv. 263980 – 01)”.

Orbene, nel caso di specie la “ricostruzione” del motivo di doglianza ha condotto il Supremo Collegio a ritenere il medesimo inammissibile stante la sua manifesta infondatezza.

Conclusivamente argomentando, una volta dichiarata l’inammissibilità di due motivi (uno dei quali oggetto di “ricostruzione”), la Suprema Corte ha, invece, ritenuto fondata la lamentata omessa motivazione in ordine al riconoscimento della contestata recidiva.

In tal senso, devesi rilevare che il riconoscimento della medesima (ossia la recidiva) “richiede una verifica, in concreto, da parte del giudice di merito che, in maniera anche succinta purché completa, deve darne conto in motivazione al fine di accertare se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali (ex multis, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibé, Rv. 247838 – 01)”.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha disposto l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza per un nuovo giudizio su tale ultimo punto non avendo il giudice di secondo grado fornito specifica motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della contestata recidiva.

 

Cass. Pen., Sez. 1, Sentenza n. 45183 del 11/10/2023 Ud. (dep. 09/11/2023) Rv. 285503-01

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