La Sesta Sezione con una recente sentenza ritorna a pronunciarsi sulla differenza esistente tra connivenza non punibile e concorso nel reato sottolineando che “in ordine al contributo partecipativo, significativo è il contributo quanto meno all’occultamento, custodia e controllo dello stupefacente che, per essere finalizzati ad evitare che lo stesso venga rinvenuto e quindi a protrarne la illegittima detenzione, costituiscono apporto concorsuale al reato in questione”.

La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, si è pronunciata sul ricorso proposto avverso una sentenza emessa dalla Corte di appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari – che, confermando la sentenza resa dal Tribunale di Nuoro, dichiarava la penale responsabilità dell’imputato per il delitto di cui agli artt. 99, comma IV, ultimo periodo, c.p., 61, comma I, n. 11 – quater), c.p. e 110 c.p., 73, comma IV, e 80, comma II, d.P.R. n. 309/1990 e lo condannava alla pena di anni quattro, mesi due di reclusione ed euro 15.000 di multa.

Ciò posto, la Sesta Sezione reputava fondato il ricorso nella parte in cui ci si doleva del difetto di motivazione in ordine al contributo materiale o morale, fornito dall’imputato, con specifico riferimento alla illecita condotta di detenzione della sostanza posta in essere dalla convivente (la quale, nel caso di specie, si era assunta ogni responsabilità in ordine alla detenzione dello stupefacente).

Orbene, il Supremo Collegio ha ribadito come, ai fini della corretta individuazione del contributo causale da parte del concorrente, nel reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 73 d.P.R. 309/1990, sia necessario individuare una serie di elementi dai quali è possibile desumere che il concorrente abbia facilitato la condotta criminosa del correo.

Di tal che, la mera adesione morale o la semplice conoscenza o, comunque, l’assistenza inerte alla condotta delittuosa altrui non può, di per sé, essere considerata una forma di contributo causale (cfr. Sez. 4, n. 3924 del 05/02/1998, Brescia, Rv. 210638; cfr. anche Sez. 6, n.11383 del 20/10/1994, Bonaffini, Rv. 199634).

Pertanto, è concorrente nel reato di detenzione di sostanza stupefacente, non solo colui che riesce ad assicurare al soggetto agente un certo grado di sicurezza nell’agire criminoso, ma, anche, chi (implicitamente) fornisce, in caso di bisogno, un apporto “utile alla causa” (cfr., con riferimento al concorso del coniuge, Sez. 6, n. 9986 del 20/05/1998, Costantino, Rv. 211587).

Fondamentale, secondo la Corte, è la distinzione intercorrente tra connivenza non punibile e concorso nel reato.

La prima richiede la sussistenza di un comportamento meramente passivo del soggetto agente tale da non apportare alcunché alla realizzazione del reato.

Il secondo, invece, ai fini della sua configurazione, richiede un “un contributo partecipativo – morale o materiale – alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito” (Sez. 6, n. 14606 del 18/02/2010, lemma, Rv. 247127; Sez. 4, n. 4948 del 22/01/2010, Porcheddu, Rv. 246649).

In tal senso, secondo la Suprema Corte è fondamentale ribadire il principio di diritto secondo cui “in ordine al contributo partecipativo, significativo è il contributo quanto meno all’occultamento, custodia e controllo dello stupefacente che, per essere finalizzati ad evitare che lo stesso venga rinvenuto e quindi a protrarne la illegittima detenzione, costituiscono apporto concorsuale al reato in questione”.

Nel caso di specie, il vizio connotante la motivazione dell’impugnata sentenza si fonda su una serie di argomentazioni che, ad avviso della Corte, peccano di illogicità.

Difatti, la tesi addotta dal giudice di secondo grado, a base della sentenza di condanna, si è essenzialmente fondata sulla inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla convivente (professatasi fin da subito la esclusiva titolare dello stupefacente) e sulle particolari modalità di occultamento dello stupefacente (secondo la Corte, l’imputato non poteva non sapere ove la medesima era stata occultata).

Il vulnus motivazionale è da rinvenirsi nell’assenza, all’interno dell’impianto argomentativo, di un quid pluris che permetta di individuare l’effettivo contributo materiale e/o morale attribuibile all’imputato.

Difatti, secondo i Giudici di legittimità, le illazioni della convivente non possono, di per sé, reputarsi idonee ai fini di un compiuto accertamento in ordine al contributo morale e/o materiale prestato dal concorrente considerata l’assenza di una specifica e puntuale motivazione in ordine alle “ragioni che portano a ritenere che proprio il convivente abbia fornito un apporto morale o materiale alla fattispecie contestata ex art. 110 cod. pen.” e soprattutto a reputare “esistente un contributo sorretto su dati certi e non, invece, fondato proprio sulle stesse dichiarazioni che si assumono inattendibili”.

Pertanto, sulla scorta delle superiori argomentazioni, la Suprema Corte ha disposto l’annullamento con rinvio della impugnata sentenza al fine di valutare se, nel caso di specie, ricorrano o meno i presupposti per ritenere integrato il concorso dell’imputato nel reato di detenzione di sostanza stupefacente.

 

Cass. Pen., Sez. VI,  sent. 7675/2024

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