La Seconda Sezione, con la sentenza allegata, ha ribadito il principio secondo cui “integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi, senza aver concorso nel delitto presupposto, metta a disposizione il proprio conto corrente per ostacolare l’accertamento della delittuosa provenienza delle somme da altri ricavate mediante frode informatica, consentendone il versamento su di esso e provvedendo, di seguito, al loro incasso”.

La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ha rigettato il ricorso presentato dall’imputato avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Torino che, in riforma della pronuncia resa dal giudice di primo grado, ha dichiarato la penale responsabilità del medesimo in ordine al reato di riciclaggio allo stesso ascritto e, concesse le attenuanti previste dagli artt. 648 bis comma 3 c.p. e 62 bis c.p., lo condannava alla pena di anno 1, mesi 9, giorni 10 di reclusione ed euro 2222,00 di multa.

Il ricorrente, impugnata la sentenza, lamentava:

1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento alla norma contenuta nell’art. 648 bis c.p., mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla dichiarazione di responsabilità resa nei confronti dell’imputato per aver la Corte di appello sovvertito l’esito assolutorio del giudizio di primo grado non tenendo conto delle circostanze dimostrative della buona fede del medesimo. E, ancora, il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente valutato come vaga e generica la versione fornita dal ricorrente circa l’utilizzazione dello stesso c/c (intestato all’imputato) da parte di terzi nella sua non consapevolezza dell’origine illecita delle somme ivi versate;

2) inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla omessa riqualificazione del fatto nel delitto previsto nella norma contenuta nell’art. 640 ter c.p.  sotto il profilo del concorso di persone nel reato presupposto, avendo l’imputato al più fornito un contributo per la realizzazione dell’ingiusto profitto.

La Suprema Corte reputava il primo motivo inammissibile trattandosi di una reiterazione di doglienze “in puro fatto” e, pertanto, non sottoponibili all’attenzione del Giudice di legittimità.

Ciò posto, con riferimento al secondo motivo, la Seconda Sezione ha precisato come risponde del reato di riciclaggio colui che permette il versamento, sul proprio conto corrente bancario, di somme frutto di precedenti delitti nella consapevolezza dell’origine illecita delle somme.

In tal senso, devesi rilevare che, con una recente pronuncia (Sez. 2, n. 19125 del 26/04/2023, Rv. 284653 – 01) è stato affermato che “integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi, senza aver concorso nel delitto presupposto, metta a disposizione il proprio conto corrente per ostacolare l’accertamento della delittuosa provenienza delle somme da altri ricavate mediante frode informatica, consentendone il versamento su di esso e provvedendo, di seguito, al loro incasso”.

Di tal che, la ricezione di una somma di denaro, frutto di una precedente truffa informatica, sul proprio conto corrente integra la condotta di riciclaggio considerato che la medesima può anche consistere nella sola accettazione del rischio, quale dolo eventuale, della provenienza illecita della somma medesima.

E, ancora, nel caso di specie, non è stata ritenuta fondata la richiesta di applicazione del regime sul concorso di persone nel reato presupposto.

Difatti, la c.d. clausola di riserva contenuta nell’incipit della norma contenuta nell’art. 648 bis c.p., come stabilito dalle Sezioni Unite “Iavarazzo” “costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione di essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l’intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto (Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Rv. 259587 – 01)”.

Di tal che, risponde del reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 110 – 640 ter c.p. solo colui che, in accordo con gli autori della condotta di sottrazione illecita di somme e pienamente consapevole dell’origine delittuosa delle medesime, abbia ricevuto le somme unicamente per una successiva distribuzione delle stesse.

Invece, risponde del reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 648 bis c.p.p. il soggetto che abbia proceduto alla apertura e abbia operato sul c/c/ (appena aperto) quale titolare solo al fine di garantire agli autori del reato presupposto di poter venire in possesso del profitto illecito.

In tale seconda ipotesi, non è configurabile “alcun profilo neppure di mero concorso morale nel reato di truffa informatica”.

Ai fini della distinzione tra concorso nel reato presupposto di truffa informatica e riciclaggio non è sufficiente che, una volta ricostruite le varie condotte, il c/c sia stato attivato prima della consumazione del delitto presupposto per affermare la responsabilità del titolare a titolo di concorso nella truffa risultando, invece, necessario provare che il “titolare abbia avuto conoscenza e consapevolezza dell’utilizzabilità di quel c/c per l’esecuzione di specifici episodi di truffa di cui aveva precisa conoscenza”.

In tal senso, devesi rilevare che, in casi consimili, le due fattispecie dianzi indicate (concorso nel reato presupposto e riciclaggio) si diversificano poiché (come sottolineato da Sez. 2, n. 18965 del 21/04/2016) “integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi, senza aver concorso nel delitto presupposto, metta a disposizione la propria carta prepagata per ostacolare la provenienza delittuosa delle somme da altri ricavate dall’illecito utilizzo di una carta clonata, consentendo il versamento del denaro in precedenza prelevato al bancomat dal possessore di quest’ultima (resosi perciò responsabile del delitto di frode informatica), ovvero consentendo il diretto trasferimento, sulla predetta carta prepagata, delle somme ottenute dal possessore della carta clonata con un’operazione di “ricarica” presso lo sportello automatico”.

Il ridetto principio deve essere applicato anche nel caso in cui, a seguito della commissione del delitto previsto dalla norma contenuta nell’art. 640 ter c.p., segua il versamento del profitto illecito su un conto corrente bancario messo a disposizione da un terzo estraneo al perfezionamento del reato presupposto.

Infatti, in assenza di qualsivoglia forma di concorso punibile nel reato di truffa informatica (considerato che, nel caso di specie, il ricorrente non aveva precisa cognizione della specifica operazione delittuosa), il successivo versamento sul c/c sarebbe stato, unicamente, finalizzato a garantire agli autori del reato presupposto di godere dell’illecito profitto derivante dalla loro condotta.

Conclusivamente argomentando, in assenza di elementi idonei a dimostrare il ruolo concorsuale del ricorrente nel reato presupposto, non è possibile, nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, “attivare” la c.d. clausola di riserva prevista dall’art. 648 bis c.p. “non avendo (il ricorrente) mai riferito o comunque fornito un qualsiasi elemento per ritenerlo concorrente nella truffa informatica né ammesso di avere agito d’accordo con gli autori materiali delle operazioni effettuate via web”.

Una situazione siffatta, secondo il Supremo Collegio, ha determinato la corretta qualificazione giuridica del fatto all’interno della fattispecie prevista dalla norma contenuta nell’art. 648 bis a discapito di quella invocata dal ricorrente ossia di una ipotesi di concorso ex art. 110 c.p. nella fattispecie di cui all’art. 640 ter c.p..

 

Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 8793/2024

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