Nel giudizio di appello cautelare, celebrato nelle forme e con l’osservanza dei termini previsti dall’art. 127 cod. proc. pen., possono essere prodotti dalle parti elementi probatori “nuovi” nel rispetto del contraddittorio e del principio di devoluzione, contrassegnato dalla contestazione, dalla richiesta originaria e dai motivi contenuti nell’atto d’appello.

Con il ricorso la difesa lamentava che il Tribunale – nel giudizio sull’appello depositato un anno prima – aveva escluso la possibilità di poter considerare, in forza del principio devolutivo, gli elementi nuovi e sopravvenuti che la difesa ha prodotto all’udienza di discussione, consistenti nelle dichiarazioni testimoniali di un ufficiale di polizia giudiziaria assunte nel dibattimento avviato successivamente all’adozione del provvedimento appellato e dalle quali, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe emersa ulteriore prova dell’inesistenza di collegamenti tra l’imputato e il sodalizio mafioso.

Sul punto si registrano due indirizzi contrapposti.

Secondo un primo orientamento, il giudice dell’appello cautelare è vincolato dall’effetto devolutivo dell’impugnazione, risultando conseguentemente privo di poteri istruttori funzionali a modificare la piattaforma cognitiva in riferimento alla quale è stato adottato il provvedimento impugnato. Pertanto, la prospettazione di una situazione nuova più favorevole all’appellante fondata su elementi inediti deve costituire oggetto di una nuova istanza al giudice procedente, la cui decisione è a sua volta appellabile ex art. 310 cod. proc. pen. Soluzione questa che, per le pronunzie riconducibili all’orientamento menzionato, deve ritenersi coerente con quanto deciso da Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, Donelli, Rv. 227357 – 01.

Queste ultime hanno differenziato il regime applicabile all’appello cautelare proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione della misura cautelare, rispetto a quello applicabile nell’incidente cautelare relativo al rigetto dell’istanza di revoca della misura, riconoscendo solo nel primo caso la possibilità di introdurre elementi nuovi anche sopravvenuti.

Sussiste un secondo e opposto orientamento per il quale l’appello concernente le misure cautelari implica una valutazione complessiva della prognosi cautelare e pertanto attribuisce al giudice dell’impugnazione i medesimi poteri spettanti al primo giudice, compreso quello di decidere, sia pure nell’ambito dei motivi prospettati, su elementi diversi e successivi rispetto a quelli posti a base dell’ordinanza impugnata. Secondo alcune delle pronunzie che si riconoscono nell’orientamento in esame possono, infatti, trovare applicazione in via analogica anche nell’appello cautelare le disposizioni di cui all’art. 603, commi 2 e 3, cod. proc. pen. in tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

  1. Le Sezioni Unite hanno deciso di aderire a quest’ultimo indirizzo, pur con alcune precisazioni.

Se i due orientamenti sostanzialmente concordano nel ritenere che sia il principio devolutivo a definire l’oggetto della cognizione del giudice dell’appello cautelare, è, dunque, indubbio che l’effettivo punto di attrito tra i medesimi riguardi esclusivamente le implicazioni di tale principio sulla determinazione dell’ampiezza del materiale cognitivo in riferimento al quale a quel giudice è consentito decidere l’impugnazione.

2.1 Mette conto di osservare preliminarmente come le SS.UU. Donelli avevano già chiarito che la modifica della base conoscitiva del giudice non è di per sé incompatibile con la struttura e la funzione tipiche dell’appello, con la precisazione per cui tale carattere deve ritenersi comune alle varie tipologie di gravame riconducibili al suo paradigma e configurate nei diversi contesti procedurali dal codice di rito, riflettendosi pertanto “in qualche misura, anche nella definizione dell’area del sindacato sulla libertà, proprio dell’appello cautelare”.

La sentenza Donelli ha poi precisato come, nel caso dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento di rigetto della richiesta cautelare, la facoltà di produrre elementi inediti trascende l’oggetto dei motivi di gravame solo perché́, in tale ipotesi, l’impugnazione produce un effetto integralmente devolutivo, imponendo al giudice la necessaria verifica di tutti i presupposti richiesti per l’applicazione della misura cautelare, analogamente a quanto avviene nel giudizio di cognizione nel caso in cui ad essere appellata dalla pubblica accusa sia la sentenza di assoluzione o quella di non luogo a procedere.

Ed in proposito va conseguentemente confutato il rilievo per cui la sentenza Donelli, circoscrivendo la legittimità della produzione dei nova probatori esclusivamente all’ipotesi dell’appello del pubblico ministero avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta cautelare, avrebbe implicitamente escluso che ciò̀ sia consentito anche nel caso di impugnazione di provvedimenti diversi (Sez. 2, n. 16043 del 20/03/2012). Va, infatti, ribadito che, nell’occasione, le Sezioni Unite non hanno inteso delimitare nel senso ipotizzato il principio affermato, esulando il tema dall’economia della decisione sulla fattispecie concreta in riferimento alla quale sono state chiamate ad esprimersi ed in relazione alla cui specificità̀ hanno poi definito il percorso argomentativo che ne ha costituito la base giustificativa, senza in tal modo negare che, per ragioni diverse, lo stesso principio possa estendersi all’ipotesi dell’appello di provvedimenti diversi da quelli espressamente considerati. Deve invece sottolinearsi che le considerazioni svolte dalla sentenza sulla compatibilità delle regole della devoluzione con la modifica dell’assetto probatorio dell’appello assumono valenza più generale, rappresentando l’esito di una valutazione della struttura di tale mezzo di impugnazione che esula dalla specifica fattispecie cui poi è stato riferito il principio affermato.

2.2 Anche l’ulteriore argomento sviluppato dall’orientamento negativo, ossia quello fondato sul mancato rinvio da parte dell’art. 310 al nono comma dell’art. 309 cod. proc. pen., è già stato ritenuto non decisivo dalla citata pronunzia delle Sezioni Unite.

A conferma di tale affermazione va osservato che indubbiamente l’art. 310, comma 2, rinvia solo ad alcune delle disposizioni del citato art. 309 – ed in particolare a quelle contenute nei commi 1, 2, 3, 4 e 7 – ma, altresì, che tale rinvio riguarda sostanzialmente soltanto la disciplina dei termini e delle modalità di presentazione dell’impugnazione, nonché l’individuazione del giudice funzionalmente competente a deciderla ed è, all’evidenza, ispirato ad una mera esigenza di semplificazione nella redazione operata dal legislatore non attinge, infatti, alcuno dei profili strutturali del giudizio di riesame, ma solo alcuni meccanismi procedurali sufficientemente neutri da poter essere replicati nella disciplina dell’appello cautelare, senza in tal modo mettere in discussione l’autonomia dei due strumenti impugnatori.

Appare, dunque, improprio desumere la volontà legislativa di inibire la modifica del patrimonio cognitivo nell’appello de libertate dal mancato inserimento tra le norme richiamate anche della disposizione contenuta nel citato comma dell’art. 309. Anche perché́ la configurazione del riesame come mezzo di impugnazione eccezionale ha richiesto di configurare in maniera autonoma e esaustiva all’interno dello stesso articolo la disciplina del relativo procedimento, non potendo tale disposizione mutuarne altrove il contenuto, come, invece, accade per l’appello, che trova nello statuto generale di tale mezzo di impugnazione il naturale completamento della sua disciplina.

La peculiarità della disposizione di cui all’art. 309, comma 9, si apprezza, peraltro, non tanto per l’attribuzione alle parti della facoltà di espandere il corredo cognitivo del giudice investito dell’impugnazione, quanto, piuttosto, per la possibilità che i nuovi elementi vengano presentati direttamente all’udienza in cui deve essere decisa l’istanza di riesame, in deroga alle ordinarie regole del rito camerale partecipato, alle cui forme pure lo stesso art. 309 rinvia. Deroga che trova la sua ratio, per l’appunto, nella particolare struttura del giudizio di riesame e nella specifica funzione che gli è assegnata, entrambe non assimilabili a quelle dell’appello cautelare. Infatti, i ristretti e perentori termini entro i quali tale giudizio deve essere celebrato, unitamente al fatto che oggetto di riesame è esclusivamente l’ordinanza applicativa di una misura cautelare adottata inaudita altera parte, giustificano la deroga alle regole del rito camerale in funzione dell’effettivo dispiegamento del diritto di difesa.

Non di meno va rilevato come l’obiezione in esame finisca per risultare in contraddizione con un altro argomento talvolta opposto alla produzione nell’appello cautelare di elementi inediti, ossia quello alla asserita
incompatibilità dei limiti temporali entro cui deve svolgersi il giudizio d’appello cautelare con l’acquisizione degli stessi nel rispetto del contraddittorio tra le parti (Sez. 2, n. 400 del 12/11/2019).

E’, infatti, appena il caso di ricordare che – come, per vero, già aveva incidentalmente sottolineato anche la stessa sentenza Donelli – le cadenze indicate per il suo svolgimento dall’art. 310, comma 2, assumono un carattere solo ordinatorio, al contrario dei termini imposti dall’art. 309 dello stesso codice per la celebrazione e la decisione del giudizio di riesame, nel quale è, ciononostante, consentito alle parti presentare elementi di prova anche nel corso dell’udienza di trattazione.

2.3 Sotto altro profilo deve comunque escludersi l’applicabilità all’appello cautelare dell’art. 603, commi 1 e 3, cod. proc. pen., rimanendo condivisibile quanto osservato in proposito dalla citata sentenza Donelli in merito al carattere derogatorio delle disposizioni che disciplinano la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nell’appello cognitivo rispetto alla presunzione di completezza del materiale probatorio raccolto nel giudizio di primo grado nel contraddittorio delle parti. E’, infatti, la struttura stessa del giudizio di cognizione e la “logica di non regressione” che ne contrassegna lo sviluppo negli ulteriori gradi a giustificare l’attribuzione al giudice dell’appello di poteri istruttori, la cui funzione primaria è quella di fornirgli gli strumenti idonei al superamento di eventuali situazioni di stallo decisorio. Il che impedisce di esportare una disciplina configurata per soddisfare le esigenze proprie dell’appello cognitivo nel diverso contesto dell’incidente cautelare, nel quale, come sottolineato dal giudice delle leggi, in analoghe situazioni deve in ogni caso prevalere il “principio del favor libertatis in una linea direttiva che, nell’alternativa tra l’accoglimento e il rigetto delle richieste delle parti, fa prevalere in definitiva le ragioni della liberta sulle esigenze cautelari” (Corte cost., ord. n. 321 del 2001) e in cui alle parti è comunque sempre consentito di attivare nuovamente la sequenza procedimentale di cui all’art. 299 cod. proc. pen. e, quindi, di sottoporre al vaglio giudiziario elementi diversi da quelli prospettati in una precedente occasione.

Non è comunque esatto l’assunto per cui la sentenza Donelli avrebbe tout court escluso la rilevanza di tutte le disposizioni contenute nell’art. 603 cpp.. In tal senso non si è inteso affermare che la disposizione in questione trovi diretta applicazione nell’appello cautelare quale norma di disciplina, quanto, piuttosto, sottolineare che l’apertura della piattaforma cognitiva al recepimento di prove nuove è un carattere originario del mezzo di impugnazione di cui si tratta e, come tale, comune “alle varie tipologie di gravame denominate appello”, fermo restando che lo stesso carattere deve manifestarsi in modo coerente con lo specifico contesto processuale nel quale lo strumento impugnatorio viene configurato, assumendo, quindi, connotati di disciplina anche diversificati.

  1. Chiarito ciò va detto che i limiti di legittimità costituzionale del sistema cautelare, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

L’antinomia tra tale presunzione e l’espressa previsione, da parte della stessa Carta fondamentale, di una restrizione della libertà personale ante iudicium è peraltro solo apparente. È infatti proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda impedendo che essa assuma connotazioni sovrapponibili a quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità. Come ricordato dalla Corte costituzionale, il principio enunciato dall’art. 27, secondo comma, Cost. “rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano” (ex multis Corte cost., sent., n. 265 del 2010).

Ed in tal senso discende dalle stesse norme costituzionali che fondano la legittimità del sistema cautelare (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) il principio per cui la sua tenuta è inscindibilmente connessa alla precaria stabilita dei provvedimenti restrittivi di cui consente l’adozione, posto che questi vengono emanati in base ad una cognizione solo sommaria e allo stato degli atti, nonché ad un giudizio solo probabilistico di colpevolezza.

La provvisorietà dei provvedimenti cautelari è, dunque, carattere tipico che li contrassegna a garanzia dell’irrinunciabile bilanciamento con la presunzione di non colpevolezza. Trattandosi, come detto, di interventi restrittivi della libertà personale che trovano la loro esclusiva base di legittimazione nell’urgenza di soddisfare finalità di prevenzione di specifiche esigenze processuali o extraprocessuali distinte dalle finalità proprie della sanzione penale e che vengono adottati prescindendo da un accertamento pieno ed in contradditorio degli elementi che li giustificano, è, infatti, evidente, come ricordato da autorevole dottrina, che la funzione di garanzia assolta dalla menzionata presunzione verrebbe irrimediabilmente compromessa dalla previsione di meccanismi di fissità e non revocabilità delle cautele qualora, nel corso della loro esecuzione, dovessero mutare le condizioni che ne hanno legittimato l’adozione.

Indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento è, infine, che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”, il che significa che la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto (ex multis Corte cost., sent., n. 299 del 2005; Corte cost., sent., n. 164 del 2011). Il criterio impegna, dunque, il legislatore “da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla liberta personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete” (ex multis Corte cost. sent. n. 265 del 2010, cit.).

È stato ancora il giudice delle leggi a sottolineare come il sistema cautelare debba, dunque, corrispondere alla logica del costante adeguamento dello status libertatis dell’imputato alle risultanze del procedimento e che alla medesima logica debba ispirarsi anche l’interprete nel ricostruire la relativa disciplina (ex multis Corte cost. sent. n. 321 del 2001; Corte cost. sent., n. 89 del 1998).

E nello stesso senso le Sezioni Unite hanno ripetutamente ricordato come sia stata proprio l’immanente esigenza di evitare che possa registrarsi nel corso dell’esecuzione della misura uno scollamento della situazione cautelare da quella reale ad aver ispirato la previsione, nell’art. 299, commi 1,2 e 3, cod. proc. pen., di strumenti procedurali funzionali alla verifica della perdurante sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura stessa e della sua idoneità a fronteggiare, nell’ottica della minore compressione possibile della libertà personale, le esigenze che concretamente permangono o residuano. E del resto, trattandosi di principi di sistema, non può dubitarsi che gli stessi contribuiscano a modellare anche la disciplina dell’appello cautelare, come, peraltro, condivisibilmente già aveva affermato la più volte evocata sentenza Donelli.

3.1 Nella logica tracciata dai suddetti principi, appare quindi irragionevole ritenere che al giudice dell’appello cautelare sia preclusa la possibilità di acquisire gli elementi probatori eventualmente prodotti dalle parti ad integrazione della piattaforma cognitiva sulla base della quale è stato emesso il provvedimento impugnato. L’esigenza di garantire la sintonia tra l’intervento cautelare e la realtà sottostante, nell’ottica del costante adeguamento del primo alla seconda e della ragionevole durata della restrizione della liberta personale, risulta incompatibile con la preclusione ipotizzata dal primo dei due orientamenti in conflitto, che si traduce nell’illogica imposizione di riattivare in ogni caso la sequenza procedimentale prevista dall’art. 299 cod. proc. pen. al fine di sottoporre a valutazione giudiziale i nova probatori anche quando le parti già ne dispongono al momento della celebrazione dell’appello proposto avverso un provvedimento già adottato.

In questa logica è coerente con i principi che governano il sistema cautelare affermare che, nell’appello ex art. 310 cod. proc. pen., il giudice sia messo nelle condizioni di disporre di elementi potenzialmente utili alla decisione, ancorché diversi da quelli valutati ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato. Utilità che va misurata in riferimento all’esigenza di garantire l’effettiva corrispondenza della posizione cautelare con la realtà sottostante e di evitare che il sindacato sulla libertà proprio del giudizio d’appello giunga ad esiti incoerenti o risulti addirittura inutile.

Se, però, alle parti, per come statuito dalle Sezioni Unite Donelli, è certamente consentito produrre elementi inediti in caso di appello proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta cautelare e se si ammette che tale facoltà sussiste anche nell’ipotesi in cui l’impugnazione riguarda il provvedimento applicativo di una misura interdittiva, non si comprende quale sarebbe la ratio che governa il sistema qualora, come propugnato dal primo dei due orientamenti esaminati, dovesse escludersi che analoga facoltà spetti in tutti gli altri casi di appello cautelare. Soprattutto non sarebbe comprensibile quale sarebbe la ragione di una tale frammentazione della disciplina dell’istituto, né, si ribadisce, la sua compatibilità con il principio di ragionevole durata delle cautele.

In forza di quanto illustrato, è dunque opinione delle Sezioni Unite che, anche in assenza di una espressa previsione normativa in tal senso, nel procedimento conseguente all’appello proposto avverso un provvedimento adottato ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., sia legittima la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori “nuovi” nei limiti e con le modalità che derivano dalla struttura e dalla funzione del mezzo di impugnazione di cui si tratta.

In tal senso è anzitutto necessario, dunque, che i nova prodotti non esorbitino dai confini segnati dal devolutum, ossia dal perimetro tracciato dai motivi d’impugnazione e dall’oggetto della domanda originariamente proposta al giudice che procede.

S’intende dire che gli elementi di cui è ammissibile la produzione devono risultare pertinenti al tema originariamente proposto al giudice che procede ed ai punti della sua decisione effettivamente devoluti con i motivi d’impugnazione. Cosi, ad esempio, non potrà ritenersi ammissibile la produzione di nova tesi a mettere in dubbio la gravità del quadro indiziario qualora l’originaria istanza o i motivi d’appello abbiano avuto ad oggetto esclusivamente il tema della persistenza delle esigenze cautelari o quello dell’adeguatezza della misura in corso di esecuzione.

Entro i limiti evidenziati non vi è ragione alcuna, invece, per circoscrivere la facoltà di integrare la piattaforma cognitiva del giudice dell’appello ai soli elementi probatori sopravvenuti alla decisione impugnata o a quelli scoperti successivamente alla sua adozione, risultando coerente con i principi del sistema cautelare la conclusione per cui, oggetto di produzione, possano essere anche quelli preesistenti non precedentemente sottoposti alla valutazione giudiziale per scelta delle parti. Sostenendo il contrario, infatti, si finirebbe per riproporre surrettiziamente una preclusione fondata sul presupposto per cui la stabilita dei provvedimenti cautelari dipenderebbe non solo dal dedotto, ma anche dal deducibile, interpretazione la cui validità è stata, invece, ripetutamente smentita dalle Sezioni Unite.

In secondo luogo va ribadito quanto già precisato dalle Sezioni Unite Donelli sulla natura del materiale probatorio di cui può essere ammessa la produzione e sulle modalità della sua presentazione e acquisizione.

L’art. 310, comma 2. cod, proc. pen., prevede infatti che il procedimento d’appello si svolga in camera di consiglio nelle forme previste dall’art. 127 dello stesso codice, come già ricordato da Sez. U, n. 26156 del 28/05/2003, Di Filippo, Rv. 224612 – 01. Ne consegue che, coerentemente alla disciplina del modello richiamato, la decisione viene adottata sulla base degli elementi addotti dalle parti non prevedendo tale modello l’attribuzione al giudice di autonomi poteri istruttori, salvo che in casi eccezionali, tassativamente ed espressamente configurati dalla legge processuale.

È dunque escluso che al giudice dell’appello cautelare siano attribuiti poteri istruttori in senso stretto intesi, ossia funzionali allo svolgimento di attività finalizzata alla formazione e acquisizione da parte dello stesso giudice di elementi nuovi da utilizzare per il giudizio. Tanto più che, come ricordato, non trovano applicazione nell’incidente cautelare le disposizioni dell’art. 603 cod. proc. pen. che assegnano al giudice della cognizione poteri istruttori di tal genere. Quello che gli è, invece, consentito entro i limiti precedentemente precisati, è il potere di acquisire la documentazione fornita dalle parti relativa agli elementi informativi “precostituiti” che intendono sottoporre alla sua valutazione.

Né, infine, escludere che il giudice dell’appello sia titolare di autonomi poteri istruttori si pone in contraddizione con il principio per cui egli, come qualsiasi altro giudice comunque investito della competenza funzionale da una richiesta dell’imputato in materia cautelare, può decidere anche d’ufficio pro libertate anche ultra od extra petitum, secondo la lettura estensiva e costituzionalmente orientata del terzo comma dell’art. 299 cpp operata dal giudice delle leggi (C. Cost., sent., n. 89 del 1998, cit.) e già recepita dalle Sezioni Unite con la sentenza Donelli. Ed infatti, il favor libertatis cui si ispira il potere di intervenire in bonam partem oltre i limiti derivanti dal petitum non implica necessariamente anche l’esercizio (per di più d’ufficio) di poteri istruttori tesi ad integrare la piattaforma cognitiva.

3.2 La possibilità di modificare su iniziativa unilaterale la piattaforma cognitiva del giudice dell’impugnazione presuppone, poi, che sia garantito sul punto il contraddittorio, con due ovvie precisazioni.

Intanto, tenuto conto della natura non perentoria dei termini dettati per lo svolgimento dell’appello cautelare, spetta al giudice richiesto dell’acquisizione delle nuove prove modularne in concreto i tempi e le modalità, al fine di consentire alla parte che non ha prodotto i nova di esaminarli e confutarli. E poi, il già menzionato rinvio operato dall’art. 310 comma 2 alle “forme” previste dall’art. 127 cod. proc. pen. comporta, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, quantomeno il recepimento delle regole dettate da tale ultima disposizione per la celebrazione dell’udienza camerale. Conseguentemente, il suddetto rinvio riguarda senza dubbio anche la regola posta dal comma 2 del citato articolo, secondo la quale le parti possono presentare memorie fino a cinque giorni prima dell’udienza

E dunque alla luce di tale ratio che la norma deve essere interpretata nel senso per cui ogni integrazione di quello stato degli atti su cui si fonda il corretto svolgimento del contraddittorio camerale deve necessariamente avvenire nei termini fissati dal legislatore, dovendo altrimenti il giudice non tenerne conto.

Infatti, il termine “memorie” utilizzato nell’art. 127 comma 2 cpp individua lo strumento attraverso cui le parti veicolano nel procedimento camerale non soltanto le proprie argomentazioni, ma qualsiasi elemento informativo che intendono sottoporre alla valutazione del giudice e, dunque, anche eventuali documenti rappresentativi delle inedite prove precostituite.

 Cass. Sezioni Unite n. 15403 del 30 novembre2023 (dep. del 12 aprile 2024).

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