La quinta sezione, in tema di furto di un mezzo munito di impianto GPS, ha ribadito come “il sistema satellitare non assicura una costante vigilanza durante l’intera fase dell’azione illecita, ma la possibilità di rilevare e seguire gli spostamenti dell’autovettura è collegata ad una richiesta dell’interessato al centro operativo, cosicché, il successivo rilevamento ha soltanto una funzione recuperatoria di un bene ormai uscito definitivamente dalla sfera controllo del possessore

Invece, la Suprema Corte ha rilevato come, in tema di trattamento sanzionatorio, “in caso di appello del solo imputato, il potere discrezionale del giudice di rimodulare la pena inflitta in precedenza è subordinato alla condizione che esso sia esercitato nel rispetto del limite costituito dal divieto di sovvertire il giudizio di disvalore espresso dal precedente giudice”.

La Corte di appello di Cagliari, in parziale riforma della decisione emessa dal giudice di primo grado, dichiarava la penale responsabilità di un soggetto accusato del furto di un monopattino elettrico, aggravato dall’avere commesso il fatto su cose esposte per necessità alla pubblica fede e, esclusa la circostanza aggravante della violenza sulle cose, rideterminava la pena originariamente inflitta.

L’imputato, per il tramite del difensore, presentava ricorso per cassazione.

La quinta sezione reputava il ricorso fondato unicamente in relazione al motivo afferente il trattamento sanzionatorio, rigettando nel resto.

La Suprema Corte ha rilevato come il motivo di doglianza avente a oggetto l’omessa riqualificazione, da parte del giudice di secondo grado, del reato in furto tentato fosse priva di pregio.

In tal senso, sottolinea il Supremo Collegio come il bene ossia il monopattino, oggetto della condotta furtiva, fosse dotato di un sistema GPS.

La quinta sezione sottolinea però come l’installazione, su qualunque dispositivo, del GPS se da una parte non esclude la definitività dell’impossessamento, dall’altra non garantisce una sorveglianza “continuativa” sulla res.

Ciò posto, la Corte, per suffragare la propria tesi, richiama il principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite “Prevete” secondo cui “in caso di furto in supermercato, il monitoraggio della azione furtiva in essere, esercitato mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce ovvero attraverso la diretta osservazione da parte della persona offesa o dei dipendenti addetti alla sorveglianza ovvero delle forze dell’ordine presenti nel locale ed il conseguente intervento difensivo “in continenti”, impediscono la consumazione del delitto di furto che resta allo stadio del tentativo, non avendo l’agente conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo del soggetto passivo. (Sez. U, n. 52117 del 17/07/2014, Prevete, Rv. 261186)”.

Di tal che, anche nel caso di furto di un’auto, munita di antifurto satellitare, il reato di furto può dirsi certamente consumato in ragione del fatto che lo strumento in questione (GPS o altro impianto satellitare) non impedisce la sottrazione della res e, al contempo, non limita l’impossessamento del mezzo.

Difatti, tale dispositivo ha quale unico scopo/funzione quello di agevolarne il potenziale recupero.

Pertanto, lo strumento satellitare non tutela il soggetto passivo che, in ogni caso, perde il controllo materiale e giuridico del bene del quale è proprietario.

Il soggetto derubato, di conseguenza, avrà unicamente la possibilità, una volta trasmessa la richiesta al competente centro operativo, di “controllare” gli spostamenti dell’autovettura al fine di recuperare il bene “ormai uscito definitivamente dalla sfera di controllo del possessore” (Sez. 2, n. 39711 del 12/06/2018, Rv. 273817).

Quindi, il sistema satellitare non può assicurare una costante vigilanza durante l’intera fase dell’azione illecita e il furto deve reputarsi consumato.

Ciò posto, la quinta sezione reputava, invece, fondato il motivo di doglianza afferente il trattamento sanzionatorio e, nello specifico, il fatto che la Corte di appello – pur avendo riformato la sentenza di primo grado attraverso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di equivalenza sulla circostanza aggravante prevista dalla norma contenuta nell’art. 625 n. 7 cod. pen. –  avesse rideterminato la pena individuando una pena base superiore al minimo edittale senza, però, motivare sul punto.

In tal caso, secondo la Suprema Corte, dovrebbe entrare in gioco il principio di diritto secondo cui “il Giudice, ove riduca la pena inflitta in termini assoluti, è libero di individuare il trattamento sanzionatorio, non essendo vincolato, nell’applicare una disciplina sanzionatoria più favorevole, dalla necessità di rispettare lo stesso punto della forbice edittale da cui aveva preso le mosse la sentenza di primo grado, non ricorrendo la violazione del divieto di “reformatio in peius”, previsto dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., laddove non venga sovvertito il giudizio di disvalore espresso dal precedente giudice” (Sez. 6, n. 51130 del 15/11/2019, Rv. 278184).

Però, in caso di appello del solo imputato, il potere del giudice del gravame di rimodulare la pena inflitta dal giudice di primo grado “è subordinato alla condizione che esso sia esercitato nel rispetto del limite costituito dal divieto di sovvertire il giudizio di disvalore espresso dal precedente giudice”.

Pertanto, se il giudice di primo grado ha applicato il minimo edittale, con motivazione immune da illogicità e specificando per quale ragione la condotta criminosa non presenti una gravità tale da doversi “allontanare” dal minimo della pena, il giudice dell’appello non potrà “discostarsi significativamente dai limiti edittali minimi, in quanto condizionato al precedente accertamento valutativo del giudice di merito” (cfr. Sez. 6, n.6850 del 09/02/2016, L’Astorina, Rv. 266105; Sez. 4, n. 46973 del 06/10/2015, Mentonis, Rv. 265209).

Ciò posto, nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato come:

  • il Tribunale avesse valorizzato le modalità di svolgimento del fatto evidenziando l’assenza di condotte violente e sottolineando l’atteggiamento ampiamente collaborativo dell’imputato il quale si era reso, pertanto, meritevole del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulle contestate aggravanti (una delle quali verrà esclusa durante il giudizio di secondo grado) nonché della determinazione del trattamento sanzionatorio al minimo editale della fattispecie aggravata;
  • la Corte di appello non avesse considerato la valutazione operata dal giudice di primo grado non applicando la pena corretta (ossia quella pari a mesi sei di reclusione ed euro 154 di multa previsto – così come prevista dall’art. 624 c.p. – la quale doveva essere, successivamente, ridotta per l’avvenuto riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche).

Sulla scorta di tali considerazioni, esercitando il potere attribuito alla Suprema Corte dalla norma contenuta nell’art. 620 lett. l) c.p.p., è stata la quinta sezione a rideterminare la pena disponendo l’annullamento senza rinvio in relazione al trattamento sanzionatorio quantificando la pena in mesi quattro di reclusione ed euro 2100 di multa e rigettando nel resto.

 

Cass. pen., sez. V, ud. 20 marzo 2024 (dep. 13 maggio 2024), n. 18818

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