LA NOTIZIA: [ …”La stretta autoritaria sulla libertà del difensore – i pm milanesi avanguardisti”] 

[La dura nota delle Camere penali calabresi in seguito alla vicenda dei due avvocati destinatari di una richiesta di misura interdittiva negata dal gip]

Riportiamo di seguito la nota firmata dal coordinamento delle Camere penali Calabresi in merito alla vicenda milanese dei due avvocati diventati bersaglio dalla Procura nell’esercizio del loro mandato difensivo, con l’iscrizione a registro degli indagati dei due penalisti ritenuti “colpevoli” di assistere un presunto terrorista turco e destinatari di una richiesta di misura interdittiva, negata dal gip.

Vorremmo scrivere che quello escogitato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano contro i difensori di Baris Boyun spiati e incriminati per aver ricevuto dal proprio cliente pagamento in contanti a titolo di onorario, è inaudito. Se non fosse che da decenni l’anima del diritto di difesa viene strappata a morsi. Un pezzetto alla volta.

Per cui prendiamo posizione non per formulare l’auspicio che la stretta autoritaria sulla libertà del difensore possa allentarsi, magari per resipiscenza dei Pm più oltranzisti; nemmeno per plaudire alla decisione del GIP di Milano costretto, per respingerne le pretese, ad affermare cose ovvie sul diritto di difesa che i suoi interlocutori nemmeno concepiscono, ma al tempo stesso indifferente alla garanzia del divieto di interferenze sulle comunicazioni afferenti il mandato difensivo.

Scriviamo piuttosto per avere l’attenzione dei penalisti e di chi conserva una visione laica della giurisdizione. Per ricordarci e ricordare che le ripetute indecenti intrusioni nell’area – interdetta all’autorità – del rapporto tra l’avvocato e il proprio cliente, esprimono un clima culturale diffuso.

Come contrastarlo, è questo il punto. L’umanissima passione che spinge ad essere a fianco dell’accusato, che altrimenti non avrebbe diritti, detta all’avvocato anche la cifra del suo impegno civile. L’opera di resistenza non può essere silente, né può essere interamente delegata a chi ci rappresenta. Ciascuno nell’esercizio quotidiano della professione ha occasione di operare in controtendenza, di resistere attivamente. Con la consapevolezza che la deriva illiberale in atto si manifesta proprio attraverso la pratica quotidiana di manomissione di diritti piegati ai valori egemoni di sicurezza ed ordine.

In un sistema in cui lo Stato esercita il controllo capillare della società, accentra il monopolio della cura degli interessi delle persone e limita con strumenti sofisticati l’autonomia di individui e gruppi sociali, il diritto di difesa sembra essere al centro della linea del fuoco, un valore anacronistico da archiviare. E allora occorre guardare con disincanto alla erosione dei capisaldi della società liberale, consapevoli che se val la pena condurre la battaglia culturale di resistenza, dovremmo prima interrogarci sulla corretta postura da assumere.

Alla fine del percorso segnato dalla progressiva cessione di libertà ed autonomia della professione, l’avvocato della contemporaneità non saprà distinguere se stesso da un qualsiasi funzionario pubblico, un ufficiale di contatto con il compito di trattare le condizioni della resa del sospettato.

Se si volesse invertire la tendenza servirebbe la forza di non accettare il ruolo di figuranti e la capacità di sferzare il potere anche quando subdolamente nasconde il volto feroce. Perché il bene supremo della libertà della difesa penale non è una conquista definitiva; è dono che la storia ci ha consegnato e che dobbiamo saper conservare e coltivare. L’alternativa è quella di accettare la subalternità all’autorità, di difendere se autorizzati, di attuare una linea difensiva se approvata. E di render conto al sorvegliante. Insomma adeguarci alla deontologia dell’ausiliario collaborazionista.

La questione è seria, riguarda la dignità della funzione e dovrebbe impegnarci ben oltre le affermazioni di principio.

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